"Sono un insegnante, ma devo fare marketing per attrarre studenti, perché l'idea di diventare allevatore o pastore non attrae molti giovani. Per cominciare, dobbiamo cambiare la percezione sociale. Programmi come MasterChef attraggono i giovani alla cucina, ma invece di 'MasterShepherd' o 'MasterLivestock', abbiamo 'Farmer Seeks Wife '”. Francisco García Martínez ed altri addetti ai lavori lanciano l’allarme.
Il mestiere
Le montagne senza campanacci suonerebbero più vuote, i pascoli senza greggi sarebbero meno vivi, i formaggi senza pastori non avrebbero più storia da raccontare. Dietro ogni caciotta, ogni fetta di pecorino stagionato o ogni boccone di caprino fresco, c’è un mestiere antico quanto la civiltà stessa: la pastorizia. Un’arte che per oltre diecimila anni ha modellato i paesaggi del Mediterraneo e che oggi rischia di svanire, soffocata da burocrazia, redditività minima e mancanza di ricambio generazionale. Eppure, mentre la Spagna combatte incendi devastanti e la FAO proclama il 2026 Anno Internazionale delle Praterie e dei Pastori, qualcosa si muove: associazioni, piattaforme, singoli allevatori e formatori stanno tentando di reinventare un mestiere che non appartiene solo al passato, ma al futuro del nostro cibo e delle nostre campagne.

La Bibbia li ha idealizzati, Virgilio li ha cantati, Cervantes li ha raccontati: i pastori erano i custodi della terra, figure centrali in un mondo in cui la ricchezza coincideva con la produttività agricola. Oggi, però, di quell’immaginario restano solo frammenti. Negli anni Sessanta, in un villaggio medio, si contavano sei o sette pastori; adesso, se ne trovano uno o due, spesso senza eredi pronti a raccoglierne il testimone. «Non è solo mancanza di vocazioni, è che tutto ciò che incontrano sono ostacoli», spiega Marta Roger, allevatrice e formatrice di formaggi con il progetto La Païssa, a 7Canibales. Il calo è impressionante: secondo il censimento agricolo del MAPA, tra il 2010 e il 2020 le aziende di allevamento estensivo in Spagna sono diminuite del 30%. Ogni anno, secondo COAG, chiudono circa 1.550 aziende. Una diaspora silenziosa, che mette a rischio non solo un settore, ma un equilibrio territoriale millenario.

Da anni Michele Buster, co-fondatrice di Forever Cheese, ripete lo stesso mantra: «Senza pastori non c’è formaggio». Non è uno slogan, ma una constatazione. Se il gregge sparisce, scompaiono anche le materie prime che alimentano i caseifici, e con esse una parte fondamentale della cultura gastronomica spagnola. Per sensibilizzare l’opinione pubblica, Buster ha persino promosso una falla a Valencia in cui i pastori venivano raffigurati come supereroi. La sua piattaforma Salva Pastores è oggi uno dei forum più attivi nel dare voce a chi vive di greggi e pascoli. E non è sola. Accanto a lei ci sono associazioni come Ganaderas en Red, rete femminile che mette in luce le difficoltà specifiche delle donne pastore, e decine di progetti che cercano di ridare dignità e visibilità a un mestiere che resta alla base della nostra alimentazione. Chi sogna di intraprendere questa strada si trova davanti a una montagna di difficoltà. Marta Roger lo riassume bene: i giovani che frequentano le sue scuole di caseificazione spesso, dopo pochi anni, abbandonano. Il motivo? Costi proibitivi, terreni in affitto, infrastrutture minime da realizzare, animali da acquistare. Un investimento iniziale che può superare facilmente i 300.000 euro. Anche con aiuti pubblici, spesso insufficienti, pochi resistono oltre i primi cinque anni.

A complicare il quadro, la burocrazia. «Non ha senso seppellirci sotto la burocrazia», protesta Laura Martínez, veterinaria e fondatrice del caseificio La Caperuza. Racconta di come il rimborso per una pecora uccisa da un lupo sia di 50 euro, quando il costo reale dell’animale supera i 150. E per ottenerlo serve un percorso kafkiano di pratiche, certificazioni e trasporti specializzati. Eppure, i pastori non producono solo cibo: sono anche sentinelle del territorio. Il pascolo estensivo, consumando la vegetazione secca, riduce il rischio di incendi boschivi. Juan Ocaña, allevatore di capre Payoya a Casares, ha visto il suo gregge fermare le fiamme che minacciavano la Serranía de Ronda nel 2021. «Qualsiasi altro mezzo di prevenzione è più costoso degli animali», ricorda. Progetti come Gran Canaria Pastorea o Ramats de Foc dimostrano che il pascolo può diventare un servizio ambientale riconosciuto. Ma resta un paradosso: «Nessun allevatore vuole vivere della prevenzione incendi. Quello che vogliono è vivere del loro prodotto», sottolinea il professore Francisco García Martínez.

La vera sfida, allora, è culturale. «Il ruolo di allevatore o pastore non attrae molti giovani. Per cominciare, dobbiamo cambiare la percezione sociale. Programmi come MasterChef attraggono i giovani alla cucina, ma invece di 'MasterShepherd' o 'MasterLivestock', abbiamo 'Farmer Seeks Wife '” aggiunge Martínez con ironia. Eppure il mestiere sta già cambiando volto. I pastori di oggi non sono solo eredi di una tradizione: sono imprenditori agricoli, comunicatori, persino content creator. Gestiscono contabilità, GPS per monitorare i greggi, social media per raccontare le loro aziende. Laura Martínez, ad esempio, affianca alla produzione di formaggi anche la vendita di uova e ortaggi bio, visite guidate e attività didattiche. Juan Ocaña ha aperto un cheese bar e un agriturismo. José Araque, invece, ha costruito attorno al suo allevamento di pecore Manchego un microcosmo che comprende caseificio, hotel e ristorante, guidato dal figlio chef. «Il problema è che siamo abituati a pagare troppo poco per il cibo», osserva García Martínez. La questione non è solo economica, ma culturale: se un formaggio di qualità costa di più, quel prezzo riflette non solo il prodotto, ma il lavoro, la sostenibilità e la salvaguardia del territorio che lo hanno reso possibile.

Ecco perché, accanto ai marchi di qualità, diventa sempre più importante la filiera corta, la vendita diretta, il rapporto umano tra chi produce e chi consuma. «Per vendere, non basta fare un buon formaggio. Bisogna raccontarne il valore», ribadisce Ocaña. «Quello in pericolo di estinzione è l’allevatore», ha detto Ocaña nel 2021. Marta Roger corregge: «In realtà, ciò che rischia di sparire è il modello dei nostri nonni. Non possiamo limitarci a conservarlo, dobbiamo ricostruirlo in base alle esigenze di oggi». La pastorizia, insomma, non è un reperto da museo, ma un mestiere che deve essere reinventato. Perché senza pastori i paesaggi mediterranei si svuotano, i formaggi perdono la loro anima e interi territori rischiano di bruciare. Reinventare questo antico mestiere non significa solo salvare una tradizione, ma immaginare un futuro in cui il cibo racconta ancora la storia della terra da cui nasce.