«Non siamo qui per educare nessuno, siamo qui per offrire felicità. Se un cliente vuole la carne ben cotta, la avrà. L’ospitalità viene prima di tutto».
La storia
Un tavolo di legno consumato dagli anni, un quartiere in fermento, un ragazzo appena uscito dal liceo che convince la famiglia a rischiare tutto su un locale senza nome, quasi nascosto sotto casa. È da questo frammento di vita che prende forma Don Julio, oggi simbolo planetario della griglia argentina e indirizzo prediletto da turisti, celebrità e appassionati. La storia del suo patron Pablo Rivero non ha l’aria di una favola scritta a tavolino, ma piuttosto quella di una scalata fatta di ostinazione, sacrificio e soprattutto di un’idea chiara: l’ospitalità come vocazione. «La pressione del successo è un privilegio», ha raccontato Rivero in un’intervista a Infobae en Vivo. «Diamo sempre il massimo affinché ogni commensale si senta a casa». Dietro queste parole si cela un’impresa che oggi coinvolge 247 persone, trasformando ciò che un tempo era una rosticceria anonima in un marchio internazionale che continua a crescere senza rinunciare al calore umano.

Dalle strade “magiche e piccanti” al ristorante delle star
Rivero ricorda bene gli inizi: un adolescente di Rosario trapiantato a Buenos Aires con i genitori e le sorelle, che viveva sopra al ristorante e sognava di farne il proprio futuro. Le prime stanze erano quelle del quartiere Palermo ancora operaio, con le officine e le notti rumorose. «Era la rosticceria del barrio, senza nemmeno un’insegna, perché non serviva: ci andavano i vicini», spiega. Il nome arrivò solo in seguito, come un tributo alla comunità. Julio era un vicino di casa, figura amata e anima della murga locale Atrevidos por Costumbre. Chiamare il ristorante con il suo nome significava ancorare quell’attività non tanto a un’idea di marketing, quanto al tessuto umano che la sosteneva. Prima ancora di Don Julio, la famiglia aveva tentato con una piccola attività di panini e milanesi a Villa Bosch. Il bilancio economico non fu un trionfo, ma lasciò una consapevolezza: cucinare può cambiare l’umore delle persone. «È un grande risultato trasformare il volto di qualcuno quando mangia», ricorda Rivero nelle parole riportate da InfoBae. «Una volta che inizi, non torni più indietro».

Da lì, il salto: dalla semplice griglia di quartiere a un tempio della carne capace di attrarre i palati più esigenti, dai turisti ai critici gastronomici. Nel tempo, sono passati tra i suoi tavoli Lionel Messi, i Coldplay e innumerevoli celebrità internazionali, ma Rivero non ha dubbi: «Io voglio sempre che venga Luli, la mia vicina di isolato. Questo incarna lo spirito del posto».
Un ecosistema chiamato Don Julio
Oggi il ristorante non è più soltanto un indirizzo: è un universo che comprende una macelleria, un orto urbano – la “zona produttiva” – e altri locali come El Preferido e La Comarca. È anche un laboratorio agricolo, dove si pianificano le semine con mesi di anticipo. «In Argentina abbiamo la fortuna di quattro stagioni produttive. Cuciniamo partendo dai semi: decidiamo già a novembre quali varietà di pomodori useremo a gennaio», spiega. Il risultato è un menu che si piega alla terra: insalate di foglie amare in inverno, di cavolo in autunno, di pomodoro in piena estate. Un’idea di cucina che si muove con il tempo e che affonda le radici nel terreno prima ancora che nella brace. «È difficile ottenere verdure di qualità in Argentina, ma ci impegniamo ogni giorno per trovarle», ammette Rivero, rivelando quanto lavoro invisibile preceda ogni piatto che arriva al tavolo.

Se la carne è il cuore pulsante di Don Julio, il modo di cucinarla riflette tanto la cultura argentina quanto le abitudini internazionali. «In tutto il mondo c’è chi la preferisce più cotta o più succosa», osserva Rivero. Ma aggiunge: «In Argentina valorizziamo tagli che altrove sono considerati secondari – fianco, costine – e li cuciniamo a lungo, secondo la nostra tradizione rurale». Alla domanda se il ristorante cerchi di “educare” i clienti, la risposta è ferma: «Non siamo qui per educare nessuno, siamo qui per offrire felicità. Se un cliente vuole la carne ben cotta, la avrà. L’ospitalità viene prima di tutto».
Un lavoro che non conosce tregua
Rivero parla del suo mestiere senza enfasi eroica, ma con la serenità di chi vive la fatica come parte naturale della scelta. «È intenso, ma non lo vivo come una sofferenza. Non ho difficoltà ad andare al ristorante: mi piace. Ci vado ogni giorno, tranne la domenica, perché abito a due isolati». Il suo ufficio resta quasi inutilizzato: è ancora la vecchia casa sopra il locale. E anche in vacanza, confessa, torna sempre con un progetto nuovo in tasca. La vera forza, ammette, è il team. Senza le centinaia di collaboratori che lo affiancano, nessuna espansione sarebbe stata possibile. «Il mio lavoro non è solo cucinare, ma creare ambienti dove le persone possano crescere e sentirsi bene», sottolinea.

Guardando oltre Don Julio, Rivero si mostra fiducioso nel panorama gastronomico del Paese. «Siamo in un momento incredibile», dice. Non solo carne: in città come Mar del Plata stanno emergendo progetti seri che valorizzano il mare e i suoi frutti. È un segnale che l’Argentina non è solo parilla e malbec, ma una cucina capace di rinnovarsi, espandere i propri confini e sorprendere. Eppure, al centro di tutto resta quell’idea semplice che spinse un ragazzo a convincere i genitori a scommettere su una rosticceria di quartiere: far sentire ogni ospite a casa, fosse una rockstar in tournée o la vicina dell’isolato. Perché, come dice Rivero, «l’ospitalità è una vocazione».