Dietro la decisione di chiudere non si nascondono solo ragioni pratiche, ma anche un bilancio emotivo e personale. “È stato un errore non tornare coi piedi per terra”, confessa lo chef senza giri di parole.
La notizia
Un filo di aria salmastra, il profumo degli aranci e il sussurro del mare si mescolavano ai sapori intensi di un’Andalusia autentica e vibrante. Qui, a El Puerto de Santa María, Edu Pérez ha scritto per cinque anni una storia di cucina che non si accontentava di piacere: voleva incantare, scuotere, raccontare. Ma a partire dal prossimo 13 ottobre, quel capitolo si chiuderà, e Toqha – il suo ristorante, il suo laboratorio di suoni e sapori – abbasserà la saracinesca.L’annuncio, diffuso con la sobrietà e la schiettezza che contraddistinguono lo chef, è arrivato pochi giorni fa su Instagram. Niente più cene nel patio dove il ritmo della natura scandiva ogni portata, niente più intrecci di territorio e creatività che erano diventati il marchio di fabbrica di Toqha, riconosciuto con una stella Michelin appena un anno e mezzo fa.

Edu, nato a Saucejeño e cresciuto con l’Andalusia nelle vene, ha costruito la sua cucina come un mosaico di esperienze: dalla scuola di Luis Irizar a San Sebastián, fino alle collaborazioni con talenti come Aitor Arregi. Ma soprattutto, ha voluto onorare chi, dietro le quinte, ha fatto possibile tutto questo: “Sono i fornitori che contribuiscono al successo di Toqha. Senza di loro, non siamo niente, ed è bene ricordarlo”, confessa a 7 Canibales. Il valore del lavoro condiviso, la rete di piccoli produttori, la cultura del territorio sono stati il suo punto di partenza e di ritorno. Dietro la decisione di chiudere non si nascondono solo ragioni pratiche, ma anche un bilancio emotivo e personale. “È stato un errore non tornare coi piedi per terra”, confessa senza giri di parole. Toqha era nato come un piccolo progetto, un bar per poche persone dove la libertà di sperimentare non avrebbe avuto limiti. Ma il destino ha portato altrove, trasformando quel sogno in una realtà più grande, forse più difficile da sostenere.

La capienza è stata progressivamente ridotta, così come gli orari, in una lotta continua contro una stagionalità che non ha mai dato tregua a El Puerto, un paese che vive soprattutto di un’estate breve e intensa. “Serviamo solo 14 persone in uno spazio che ne potrebbe ospitare 50”, racconta Edu. Dietro quei numeri si cela una fatica che si fa profonda, una lotta costante per mantenere integrità e qualità senza perdere l’equilibrio. Questo equilibrio, in effetti, è uno dei temi ricorrenti nelle parole dello chef, che ha sempre cercato di fondere l’etica con l’estetica: non basta che un piatto sia bello, deve raccontare un impegno concreto. “Credo nell’etica, nei valori e nelle decisioni politiche che fai nel progetto perché ci credi davvero. Per me, lavorare con la campagna e con piccoli produttori non è un vezzo, ma una necessità.” Il peso della ristorazione gourmet, con i suoi ritmi e le sue pressioni, è un argomento che Edu affronta con una sincerità quasi disarmante. “Ho investito la mia salute in questo progetto, forse più di quanto avrei dovuto. Ho sofferto, e capisco che la sofferenza è parte del mestiere, ma voglio prendere le distanze da essa.” Il sacrificio, che per molti è sinonimo di eroismo, per lui è qualcosa da superare: “Sto cercando di muovermi verso una direzione diversa, dove ci si impegna senza lasciarsi consumare.”

Non manca poi un tocco di ironia, quella capacità di guardare a sé stessi senza drammi: “Pensavo di essere Superman. Ma non è sano pensarlo.” La consapevolezza di aver costruito un’identità professionale basata su un lavoro instancabile si accompagna a un desiderio di maturità, di moderazione e di ascolto di sé. Guardando al futuro, Edu non esclude la possibilità di tornare a cucinare, ma solo a patto di condizioni più sane e sostenibili, di un ambiente in cui prendersi cura anche di sé stessi e non solo dei piatti e dei clienti. E se Toqha chiuderà, il suo spirito non si spegnerà, perché, come spiega lui stesso, “Toqha non è solo un luogo, è un modo di fare le cose”. Nelle sue parole si percepisce un distacco dolceamaro, un mix di nostalgia e speranza: “Odio gli addii, ma stavolta volevo annunciarlo, volevo abbracciare.” Non un requiem, dunque, ma un finale di bulerías, una festa in musica che lascia spazio al passo successivo, a nuove strade ancora da tracciare.

Edu Pérez lascia un’eredità preziosa, fatta di coraggio, di onestà e di un’amore viscerale per la terra che lo ha cresciuto. Nel chiudere questo capitolo, si apre una porta sul domani, e ci ricorda che in cucina, come nella vita, il vero sentiero si crea camminando.