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Parigi: è boom di locali che fanno pagare ai turisti il 50% in più dei francesi

di:
Elisa Erriu
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copertina truffa turisti americani

Le strategie sono raffinate quanto silenziose. Niente cartelli, niente prezzi visibili a doppia tariffa. Tutto si gioca nei dettagli, nel tono di voce, nel tipo di domande che ti vengono poste, e nelle risposte che ti vengono (o non ti vengono) offerte.

La notizia

Un accento marcatamente yankee, un’espressione curiosa da primo giorno in Europa e magari una maglietta con la Tour Eiffel stampata sopra: a volte basta poco per diventare, inconsapevolmente, un bancomat ambulante. Succede a Parigi, patria della gastronomia raffinata e delle scenografie da cartolina, ma anche teatro di pratiche discutibili nei confronti di chi varca l’oceano con l’entusiasmo tipico dei visitatori americani. L’equazione? Più sei turista, più paghi. E se il tuo inglese è fluente e il portafoglio sembra gonfio, l’addition – la temutissima ricevuta – si gonfia con te. Il copione si ripete in diverse zone ad alta densità di selfie stick: ristoranti nei pressi del Campo di Marte, menu identici, trattamenti ben diversi. L’indagine del giornalista Mathieu Hennequin su Le Parisien, condotta in tandem con Marc alias Radin Malin, esperto di trucchetti per risparmiare, ha svelato una realtà scomoda quanto inequivocabile. Fingendosi turisti – uno francese, l’altro statunitense – i due hanno ordinato esattamente la stessa cosa: lasagne, un soft drink, un po’ d’acqua. Il risultato? Due conti con una differenza di quasi dieci euro. Non per errori o aggiunte richieste: per il solo fatto che uno dei due parlava inglese. L’americano riceve un bicchierone di Coca-Cola, senza possibilità di scegliere un fomato più piccolo, pagandolo 9,50 euro. L’altro, versione locale, si accontenta (si fa per dire) di una lattina a 6,50. E come se non bastasse, al turista viene servito anche del garlic bread, mai richiesto e poi fatto pagare ulteriori 6 euro.

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Le strategie sono raffinate quanto silenziose. Niente cartelli, niente prezzi visibili a doppia tariffa. Tutto si gioca nei dettagli, nel tono di voce, nel tipo di domande che ti vengono poste, e nelle risposte che ti vengono (o non ti vengono) offerte. Il personale propone alternative senza precisare che si tratta di supplementi. A volte si omette il diritto – previsto dalla legge francese – di ricevere acqua gratuitamente. E in più, si tenta il colpo di grazia: il pourboire, ovvero la mancia, chiesta in maniera insistente anche se in Francia il servizio è già incluso nel prezzo. A ricordarlo, intervistato dallo stesso reportage, è Franck Trouet, rappresentante del Groupement des hôtelleries et restaurations (GHR): “In Francia, il servizio, l’acqua e il coperto sono compresi nei prezzi esposti”. Dunque, nessun motivo valido per insistere su un extra da lasciare sul tavolo, se non quello di sfruttare l’abitudine tutta americana di gratificare il personale con generosità, convinti che sia d’obbligo. A rendere la situazione ancora più inquietante è il fatto che tutto accade sotto traccia, con la precisione di una coreografia ben studiata. Non si tratta di truffe grossolane, ma di una forma di mimetismo da rincaro: le vittime non si accorgono di nulla, se non quando rientrano in hotel e confrontano la spesa con quella di altri viaggiatori. Un altro esempio? Nel secondo ristorante visitato dagli inviati, al turista americano viene suggerito con insistenza di lasciare un pourboire, innescando un senso di dovere e cortesia che lo porta a mollare 4 euro in più. A questi si aggiunge la solita bottiglia d’acqua da 6 euro, anche in questo caso senza possibilità di scegliere la caraffa gratuita.

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Il paradosso è che Parigi, città che vive anche (e soprattutto) grazie all’amore dei turisti internazionali, mette in atto un meccanismo che rischia di incrinare proprio quel rapporto. Non si tratta di episodi sporadici o sviste da parte di un cameriere poco formato. La discreta costanza con cui queste differenze di prezzo si verificano suggerisce una strategia studiata, mirata e replicabile. Una dinamica che penalizza chi parla un’altra lingua, chi è meno informato sulle regole francesi, chi si fida del menu e del sorriso del personale. Questa inchiesta porta alla luce una verità scomoda ma necessaria. Non per demonizzare l’intera ristorazione parigina – che in molti casi resta una delle migliori al mondo – ma per smascherare una pratica che di raffinato non ha nulla. Approfittarsi dell’ignoranza (in senso letterale) linguistica e culturale di un turista è ben lontano da quell’idea di ospitalità che fa grande la cucina francese.

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