Gli Emergenti

Tutto su Gérard Fortuny: da apprendista sedicenne a chef-patron di un gourmet tutto suo

di:
Elisa Erriu
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copertina can fortuny

Gérard è entrato in cucina a sedici anni, con la determinazione di chi sente di aver trovato il proprio terreno d’espressione. Ora guida Can Fortuny.

Lo chef

A Centelles, dove la vita scorre tra tradizione e quotidianità, uno chef non ancora trentenne si è messo in testa un’idea ambiziosa: dare voce alla sua cucina prima ancora che questa abbia imparato a parlare fluentemente. Gérard Fortuny ha acceso i fornelli di Can Fortuny due anni fa, dopo aver scommesso tutto ciò che aveva – risparmi, tempo e un prestito bancario – in un ristorante che oggi respira indipendenza e desiderio. Un luogo che assomiglia più a una bottega d’autore che a un ristorante tradizionale, dove ogni piatto è firmato con l’anno della sua creazione come se fosse un'opera pittorica.

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Fuori, sei musicisti in bronzo scolpiti da Joaquim Camps Giralt sembrano suonare un'introduzione. Dentro, il silenzio si traduce in cura, in attenzione maniacale, in piccoli gesti. Su un ramo metallico, come fosse caduto da un albero incantato, si posa l’arachide mimetica: una croccante ode a El Celler de Can Roca, omaggio non dichiarato ma visibilissimo che racconta la formazione sensibile di Fortuny. Si tratta di uno di quei dettagli che non compaiono nel menu, ma restano nella memoria. Fortuny, racconta La Vanguardia, è entrato in cucina a sedici anni, con la determinazione di chi sente di aver trovato il proprio terreno d’espressione. Dopo la scuola di Tona, ha attraversato cucine importanti: lo stage da Nandu Jubany, l’esperienza con Paco Méndez, e poi il tempo accanto a Carles Gaig. Proprio a Gaig dedica un piatto che è un atto d’amore e d’irriverenza insieme: il suo caneló de cervo, con spugnole dal retrogusto dolce, sostituisce le carni tradizionali del maestro con un tocco personale e boschivo.

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"Oggi ho costantemente l’ansia", ammette Fortuny ai microfoni della testata, consapevole di quanto l’impazienza possa diventare nemica della crescita. Eppure, è proprio quella stessa impazienza ad averlo portato fin qui, a volere con tutte le forze una sala sua, una brigata, un pubblico. Oggi può contare su un team affiatato, primo fra tutti Claudia Piedrabuena, responsabile dei dolci. Le sue creazioni completano il percorso gustativo con grazia: tra tutte, una delicatissima rivisitazione del mel i mató conquista per equilibrio e nostalgia. L’idea di segnare ogni piatto con l’anno di nascita è più che un vezzo: è una dichiarazione d’intenti. Il menu si legge come un diario di bordo, dove si incontrano tonno e caviale 2025, frittelle di sobrasada 2023, arachidi salate 2024, e via dicendo. Una sorta di antologia gastronomica in continua espansione, che mostra la volontà di Fortuny di tracciare un’evoluzione anziché rincorrere mode. E poi c’è il sucapà, un piatto pensato per invitare il commensale a intingere il pane in un olio extravergine di oliva di altissima qualità, in cima a un’interpretazione fantasiosa dell’uovo fritto. Semplice nel nome, straordinario nella resa. I piselli con gamberetti sono una carezza marina, le fave con cap i pota e salsiccia nera una sinfonia robusta, contadina. Il flan di pinoli con cinghiale e pino, forse, è l’unico momento in cui la narrativa si fa più oscura e disorientante, quasi a evocare la densità misteriosa del sottobosco.

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Fortuny non ha ancora ricevuto una stella Michelin, ma qualcuno già gliela affibbia a voce alta. Lui, con onestà, ci tiene a ricordare che "le ricompense dovrebbero sempre essere una conseguenza, non un fine". Una frase che dice molto dell’approccio dello chef: ambizioso sì, ma consapevole che la solidità si costruisce passo dopo passo, piatto dopo piatto, servizio dopo servizio. Ogni giorno, senza scorciatoie. Ed è forse per questo che Can Fortuny emoziona. Non tanto per gli arredi o i calici – qui non c’è ostentazione, non ci sono lussi inutili – ma per l’intenzione genuina che si percepisce in ogni proposta. C'è una personalità che sta sbocciando, come un fiore raro che non si lascia forzare, ma cresce a modo suo. E mentre molti giovani chef sognano la ribalta, Gérard Fortuny costruisce, con ostinazione e pazienza, il proprio lessico gastronomico. A Can Fortuny si viene per assistere a una ricerca. È un ristorante che non ha paura di dichiarare i propri tentativi, i suoi "forse" e i suoi "ancora no", ma che lo fa con onestà, trasparenza e un pizzico di poesia. Il risultato? Una cucina che racconta l'urgenza e l'emozione del diventare, più che del mostrare.

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E mentre Centelles continua la sua vita tranquilla, dietro quella porta in Plaça Major 2 si scrive una storia ancora in divenire. Una storia fatta di stoviglie normali, sogni grandi e ricette che – come le belle canzoni – hanno bisogno di essere ascoltate più di una volta prima di diventare parte della memoria.

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