"Nella mia carriera c'è stato un momento in cui andavo al mercato contadino e compravo tutto quello che volevo", afferma Kevin Meehan, chef stellato a capo dei ristoranti di Los Angeles Koast e Kali. "Ora è una situazione terribile. Tutto è costosissimo. Da quando le verdure sono diventate come il caviale?"
La notizia
Una volta, la cucina d’autore era silenziosa come un tempio e sacra come un rito. Oggi, nei ristoranti stellati, si brinda a volume alto, si balla tra un piatto e l’altro e si guarda una partita tra un assaggio di wagyu e un sorso di Martini. Il fine dining non è morto, ma ha imparato a cambiare pelle: la crisi economica lo ha colpito, certo, ma non lo ha piegato. Semplicemente, ha tolto il frac e ha indossato una giacca più comoda. Non che il contesto sia clemente: tra inflazione galoppante, materie prime sempre più care, carenza di personale e un calo generalizzato delle prenotazioni – complici anche le tensioni internazionali e le restrizioni ai viaggi – tenere in piedi un ristorante di alta gamma oggi è una sfida da equilibristi. “Il costo di ogni cosa è schizzato alle stelle: pollo, verdure, burro, perfino l’acqua. Fare un brodo ora costa il triplo rispetto al 2019,” confessa Ti Adelaide Martin, veterana dell’iconico Commander's Palace di New Orleans, a Business Insider. Ma anche in mezzo alla tempesta, il talento trova nuove rotte.

C’è chi reinventa il proprio spazio, come Lilo a Carlsbad, California: un’esperienza gastronomica immersiva da 22 coperti, dove i cuochi sono anche camerieri, e i 10 piatti del menu degustazione diventano un rito collettivo e gioioso. “Qui si viene per celebrare, non per meditare sul piatto in silenzio,” spiega lo chef Eric Bost, che insieme al socio John Resnick ha dato vita a un ristorante che somiglia più a una festa che a una liturgia. Il risultato? Clienti che tornano, incuriositi da un’atmosfera dinamica, quasi teatrale, dove l’alta cucina incontra la convivialità. Un modo, questo, per far fronte anche al “vibecession”, il termine coniato per descrivere l’odierno ritorno alla cautela economica: meno soldi da spendere, certo, ma più voglia che mai di viverli bene. Anche a Los Angeles, lo chef Kevin Meehan ha deciso di cambiare spartito. Quando il suo ristorante stellato Kali ha iniziato a vedere la sala dimezzata, ha scelto di trasformarlo in una steakhouse di quartiere, con un menu più diretto e accessibile, senza rinunciare alla qualità.

"Non molto tempo fa, nella mia carriera c'è stato un momento in cui andavo al mercato contadino e compravo tutto quello che volevo", ha ricordato proprio Meehan, tutt'ora a capo dei ristoranti di Los Angeles Koast e Kali. "Attualmente è una situazione terribile. Tutto è costosissimo. Da quando le verdure sono diventate come il caviale?", si chiede. “Non tutti possono permettersi un’anatra frollata con glassa di ciliegie. Ma una bistecca, un cocktail ben fatto e un po’ di atmosfera conviviale? Quello sì,” . E se i Dodgers faranno strada nei playoff, ha già pronto il suo asso nella manica: “Ohtani dogs” gratuiti per tutti, con wagyu, furikake e senape al miso. In fondo, come dice il veterano consulente Clark Wolf, nei momenti difficili si torna ai grandi classici: carne, legno scuro, tovaglie pesanti. Un’estetica “muscolare” che comunica solidità, appagamento e un senso rassicurante di valore. Ma con una novità fondamentale: oggi il lusso non è più snob. È accogliente. La nuova alta cucina sorride, accoglie, ascolta. Per molti ristoratori, il segreto sta nell’uscire dallo schema rigido del menu degustazione e abbracciare flessibilità e creatività. Le cene-evento, ad esempio, stanno vivendo un vero rinascimento. Lo chef Michael Cimarusti – due stelle Michelin con Providence – sta celebrando i 20 anni del suo locale con una serie di cene firmate da guest star culinarie. “Abbiamo clienti che sono venuti oltre 250 volte: bisogna offrire sempre qualcosa di nuovo,” dice.

Un concetto che anche Paul Bartolotta, che gestisce ben 18 ristoranti tra Milwaukee e dintorni, ha fatto suo. Le sue serate a tema – con vini pregiati, chef ospiti o focus regionali – attraggono giovani e curiosi, e alimentano un programma fedelissimi con oltre 70.000 iscritti. Anche il marketing gioca la sua partita: Martin, per esempio, ha sfidato le sue riserve “da purista” e ha messo i piatti del suo Commander's Palace su Goldbelly, piattaforma di delivery gourmet. “Chi l’avrebbe mai detto che il paese voleva zuppa di tartaruga spedita ovunque? Eppure funziona,” racconta. Accanto, ha aperto anche Le Petit Bleu, un caffè-market con oggetti da cucina, libri e souvenir: un piccolo ecosistema commerciale che ora vale il 20% del fatturato. Persino l’idea stessa di apertura settimanale viene ripensata. In America si inizia a guardare all’Europa: meno giorni di servizio, orari anticipati, spazio agli eventi privati.

Perché anche chi lavora deve avere una vita – e magari, fare un po’ di margine extra. In questa nuova stagione della ristorazione d’élite, il valore non è più solo nel lusso da ostentare, ma nell’esperienza da ricordare. Il vero prestigio oggi non è l’etichetta, ma l’atmosfera. È il sorriso dello chef che ti serve, il brindisi che scatta spontaneo, la sorpresa di una serata che ti fa sentire parte di qualcosa. E in fondo, come ricorda Cimarusti, la scintilla che ci porta al ristorante – anche in tempi incerti – resta la stessa: “È il ricordo di esperienze magiche vissute da bambini, mangiando con i nostri genitori. E quel desiderio non scomparirà mai.” Perché finché ci sarà voglia di vivere bene, il fine dining – anche se a passo di danza e con lo sguardo allo schermo dei Dodgers – continuerà a farci sognare.