Nell’intervista del nostro direttore Pietro Pio Pitzalis, Gianfranco Pascucci racconta la genesi del suo fermentato di calamaro, simile ad un aceto balsamico per spessore e potenziale evolutivo.
Foto di copertina: @Brambilla-Serrani
Muovendo da una riflessione sulla pasta -lo spaghetto al calamaro- il grande cuoco di Pascucci al Porticciolo ha immaginato di poter riutilizzare le eccedenze del mollusco per creare un nuovo insaporitore. È nato così l’aceto di calamaro, composto prevalentemente da pelli e parti dure che vengono prima convertite in brodo, poi trattate con una pasta fermentata di bacche di mirto e lieviti. Il risultato? Una salsa acetica in divenire, che evidenzia l’incredibile trasformazione dell’ingrediente ittico. Ma partiamo dall’inizio ripercorrendo la nostra intervista a Pascucci in occasione del Congresso di Identità Golose 2025.

Gianfranco, la tua ascesa negli anni è emblematica: hai esordito con uno stile più “classico” per poi farlo evolvere in un concept d’alta cucina, sempre con grande ricerca e sperimentazione. Ora a che punto sei? Come ti senti in questo specifico momento?
Oggi posso dire di sentirmi veramente in forma, nel senso che la cosa più importante è mantenere una sana voglia di andare avanti, una curiosità e un'attenzione costante verso tutto ciò che ci circonda. Viste le premesse, si tratta di un momento molto positivo per me e per il mio team. Abbiamo aperto un nuovo locale, realizzando il sogno di anni: inaugurare Mare Bistrot, un contesto creativo che sta diventando sempre più un laboratorio di intenti. Parliamo di un format giovane, dove trovano spazio sia nostra figlia Guendalina che il mio precedente sous chef Andrea Rivetti; un luogo, inoltre, che riunisce persone molto brave a cucinare e capaci di proporre una formula “divertente”.

Tutto ciò sempre col pensiero fisso all’ecosistema e, soprattutto, tentando di capire come possa evolvere in senso ampio la gastronomia “di mare”. L’idea di non mettere al centro la cucina “di pesce” o, quantomeno, di passare da una cucina “di pesce” a una “di mare”, è stata proprio la nostra chiave. Perché il mare influenza un po' tutto, modella la geografia, quindi è un qualcosa in più; ti porta ad una ricerca maggiore, dalle alghe ai prodotti del territorio. L'ultimo piatto che abbiamo presentato parla un po' di questo.


Ce lo racconti?
È una pasta che viene cotta in acqua per 7 minuti e terminata in un infuso di calamari, mentre con gli scarti viene preparato un burro, sempre di calamari; quest’ultimo, profumato da spezie ed erbe, ci aiuta ad amalgamare la pasta. Come abbiamo poi mostrato a San Sebastian, c'è una screziatura realizzata con collagene di maiale, orecchie di maiale, calamaro ed aceto di lamponi. Quindi, in pratica, se immagini di partire da uno spaghetto col calamaro, alla fine non c'è più il mollusco tal quale, ma rimane la sua essenza profonda.
La pasta cambia formato, ingloba la nostra ricerca, va ancora più in là dell’ingrediente. D’altra parte, stiamo continuando a sperimentare attraverso la fermentazione del calamaro per ricavarne un aceto. Questo per consentire al pesce stesso di “scomparire” e diventare qualcos’altro al palato, aprendo la strada a nuovi abbinamenti.

Tornando allo spaghetto di calamari, il nostro spunto iniziale, capiamo che le potenzialità di sviluppo sono incredibili e ci consentono di approdare ad altro. Basti pensare, per esempio, alle combinazioni di sapore: meglio abbinare un aceto balsamico tradizionale al Parmigiano, che accostarvi l’uva. Lo stesso discorso l'abbiamo applicato al calamaro, e ciò è straordinario. Abbiamo presentato a Identità Golose proprio questo aceto di calamaro infuso di mirto e abbinato a un cioccolato bianco (in collaborazione col pastry chef Fabrizio Fiorani, ndr), cosicché l’esito è un dessert. Se pensi che eravamo partiti da uno spaghetto con i calamari e siamo arrivati al cioccolato bianco, ciò ci dà veramente tanti stimoli.

Qual è il tuo approccio e la tua visione del futuro?
Bisogna immergersi, bisogna essere sempre propositivi in questo momento di difficoltà oggettiva, dalle sfide economiche ai rapporti. Bisogna dare valore alle persone che vogliono averne e che desiderano raccontare una storia. Occorre cambiare un po' le nostre abitudini, anche culinarie. È come se tutti noi avessimo bisogno delle profondità marine: in fondo abbiamo paura dell'abisso, cioè del fatto che si parli di una cucina di mare come fosse una cucina “di pesce e basta”. Abbiamo invece bisogno invece di profondità, di dare all'ingrediente il suo valore, di trasformarlo, di far capire che un calamaro alla griglia è buonissimo, ma può diventare un aceto addirittura- ecco. Questa è la cosa che mi sta di più coinvolgendo in questo momento.
