Molti locali si definiscono aperti a tutti, ma le opzioni a base vegetale vengono poco curate o addirittura non indicate su menu. Creare piatti 100% green richiede inventiva e qualità, e non tutti sono disposti a investirci. Ecco cosa ne pensano alcuni ristoratori americani in merito.
La notizia
Nonostante la crescente diffusione di stili di vita più sostenibili e rispettosi dell’ambiente, che prevedono il consumo esclusivo di alimenti a base vegetale e sostituti di carne e derivati, e l’aumento di persone che scelgono per motivi etici o per salute di intraprendere tali percorsi di vita, moltissimi ristoranti continuano ad offrire menu limitati per nulla invitanti. I piatti alternativi spesso e volentieri rappresentano la voce “più triste” in lista, aggiunte di ripiego per accontentare quella specifica fetta di clientela, che pur pagando cifre inappropriate, si ritrova davanti opzioni deludenti contrariamente a chi segue una dieta onnivora, magari un’insalatina scondita con della frutta secca oppure una porzione di patatine fritte.
Questo non vuol dire essere inclusivi, ma ignorare le necessità di un gruppo di persone sempre più numeroso che desidera mangiare bene ed essere rispettato. Certo, non si discute sul fatto che siano stati fatti numerosi passai avanti fino ad oggi, tuttavia c’è ancora parecchia strada da fare affinché la maggior parte dei locali possa definirsi “per tutti”. Il che richiede impegno, costanza e una concreta interazione con ingredienti differenti.
Brian Cortes, chef de cuisine al Sour Duck Market, bar e birreria ad Austin in Texas, afferma come riportato su Eater che “chi cucina deve essere in grado trasformare qualsiasi tipo di cibo in manicaretti deliziosi, anche quello vegano”.
Mike Stankovich invece, sostiene che determinate proposte in carta dovrebbero risultare complete e gustose, indipendentemente dalle preferenze “Al Mid-City siamo flessibili, è possibile adattare le ricette ad ogni richiesta o particolare evenienza”.
E poi gli avventori scelgono dove mangiare navigando in rete, attratti da immagini e descrizioni social, ma il 99% delle volte vengono ingannati da avvincenti strategie di marketing “A cavallo del 2025 non si può aprire un posto in un centro città, dichiarare il falso online e non riuscire a capire che fare un pancake senza uova e burro non è un’impresa titanica” commenta Tim Donnelly dopo aver studiato con attenzione il Kellogg’s Diner.
E continua “La chiave del successo per molte attività è comunicare con il pubblico in maniera chiara e trasparente: non è necessario che ci si accordi anticipatamente con il ristoratore, i riferimenti visivi o determinate indicazioni dovrebbero essere a disposizione del cliente prima della visita, in modo tale che non s’incorra nel farlo sentire inadeguato al momento dell’ordinazione”.
Non mancano coloro che si schierano contro questo tipo di riflessione, David Chang ad esempio: “Se non ti piace puoi andare altrove”.
Eppure, la cucina green dovrebbe essere parte integrante dell’offerta, anziché ricoprire un ruolo marginale, e non è assolutamente vero che non vende perché poco appetibile, piuttosto non viene realizzata a regola d’arte. Tutt’altro, ai fornelli bisognerebbe abbracciare le idee creative più disparate al fine di rendere l’esperienza complessiva accessibile per chiunque.