A Torino, nella patria di bollito e agnolotti c’è uno chef che fa una cucina vegetale fra le più avanzate d’Italia. I sapori del sottosuolo sulla tavola di Antonio Chiodi Latini.
Il ristorante e lo chef
Quando varchi la soglia del ristorante di Antonio Chiodi Latini nel centro di Torino, per prima cosa incontri nell'intercapedine un aratro sospeso, simbolo della rivoluzione vegetale che ha intrapreso nel 2017. Se prosegui ed entri, può capitarti, come è successo a me, di trovare lo chef intento a controllare i parametri del Rotavapor, uno scenografico macchinario che l'alta cucina ha mutuato dalla farmacia, utilizzato per separare e concentrare aromi e sapori attraverso l'evaporazione controllata dei liquidi di un alimento.
Al mio ingresso al ristorante, un venerdì a pranzo, lo strumento sta danzando in modo regolare, rotatorio, con all'interno erbe di maggio da cui sarà estratta un'acqua di primavera. Lo chef è così assorto che a malapena si accorge che sono entrata ma, appena mi nota, mi invita con lui a osservare da vicino la magia. Terra e ricerca, estro e tecnica, gusto e stupore, divulgazione: il mondo dello chef si mostra già qui, ancora prima di sedersi al tavolo. Chiodi Latini è un cuoco d'esperienza, di 64 anni, che ha lavorato alla corte di insegne prestigiose della scena torinese e trovato un punto di svolta dirompente quando ha deciso di abbandonare l'alimentazione onnivora, qualche anno fa.
Lo chef, che vuole andare oltre le definizioni comuni di "vegetariano" e "vegano", definisce la sua cucina "underground", intesa come strumento per trarre dal sottosuolo la forma integrale del vegetale, enfatizzarla e metterla sul palco a prendersi l'intera scena. La sua ricerca si configura come un movimento, anzi, un sommovimento dei luoghi comuni e delle abitudini legate agli ortaggi. Vuole abbattere preconcetti, demolire tutto ciò che può creare istintiva resistenza nei confronti del vegetale, come esalazioni solforose pronunciate, consistenze non amabili, aspetto non sempre invitante, e lo fa a colpi di trattamenti sperimentali come come criogenizzazione, maturazione e crioessiccazione, che vanno a incidere in modo trasformativo sull'ingrediente.
Si potrebbe quasi definire una missione, la sua, perseguita ogni giorno con tentativi ed evoluzioni, che ne ha trasformato la cucina in un laboratorio permanente sul vegetale in ogni sua manifestazione, ma sempre con la felicità di chi siede al tavolo come pre-requisito. In sala non si parla mai di proteine, diete, salute e non si danno giudizi: si punta a coinvolgere e si invita ad abituarsi a star bene in modo nuovo, futuribile. La nobilitazione del prodotto della terra inizia ben prima della cucina, con la scelta dei fornitori: uno in altura in Valle D'Aosta, Paysage à Manger, uno nella pianura biellese, Cascina del Chioso, e uno in collina a Moncalieri, R.A.M. Radici.
Da ciascuno riceve prodotti di stagione, talvolta acquistando con anticipo interi raccolti, in modo che ci sia nella produzione quella serenità che permette di evitare trattamenti impattanti volti a raggiungere determinati obiettivi di vendita. I menù del ristorante, che non sono meno di 11 nel corso dell'anno, presentano proposte strutturate e modificate proprio in base ai cicli di produzione e ai risultati in campo dei suoi fornitori. È una modalità che resta in ascolto delle terre, ancor prima che dalla stagione. Si presenta quasi come un rebus, un po' criptica, l'attuale carta del ristorante.
Con simboli, schizzi di polveri di ingredienti come colori su tela, prevede percorsi che vanno da 4 a 9 interpretazioni, di cui uno a mano libera e uno dedicato al pranzo.
"Benvenuti nella cucina del futuro", promette. E, quindi, andiamo.
Il mio percorso al tavolo
Già il piccolo aperitivo desta stupore, con ortaggi che non si incontrano così sovente: le tuberine. Disposte su una delicata crema tiepida di cipollotto, al colpo d'occhio rievocano la forma di piccoli lombrichi: come in un gioco, tutto cita la terra. In abbinamento, per corroborare l'organismo, si riempie il calice con una linfa di betulla in acqua oligominerale. Il piatto seguente è Cavolo rapa con cipolla e gin, dai delicati toni pastello dei fiori eduli e delle patate di montagna violette, e la consistenza sottile, quasi impalpabile, della sfoglia vegetale ripiena, come in ricordo di un piccolo tortello. Ha grazia nell'aspetto e anche al palato.
Ma ecco arrivare una promessa di divertimento: una versione spiazzante del classico Pinzimonio: 4 oli extravergine di oliva di diverse regioni italiane versati in altrettante piccole ciotole in vetro, con accanto colorate "zolle", capsule realizzate con verdure liofilizzate. Si tratta di prendere ciascuna di esse, immergerla nell'olio abbinato e darle tempo, in modo che assuma nuova consistenza e sprigioni tutto il suo sapore, concentrato. È un gioco che invita a porre attenzione nei confronti della sensazione senza farsi tradire dalle aspettative visive, ad assaporare in modo differente e in una versione più intensa ciò che già conosciamo.
Fra una cupola e l'altra, ci si pulisce il palato con un'acqua aromatizzata spray che lo chef presenta come "fitoalimurgìa", ovvero un utilizzo alimentare di erbe selvatiche. Non è il primo e non sarà l'ultimo dei termini dalla suggestione quasi alchemica che si incontrano lungo il percorso. Siamo ancora nel tempo degli antipasti, quando arriva un Carpaccio di sedano rapa, con origano cubano e papaya. L'ortaggio, sottilissimo, è stato trattato con una salamoia e acido citrico, un procedimento non distante da quello che si riserva alle carni atte a diventare salumi. Si dimostra sapido, pungente, croccante, pronunciato nell'acidità.
Sono pronta a sorprendermi ancora di fronte a Zucca in bagna piemontese, un piatto proposto come alternativa alla classica bagna càuda di stagione, in cui la componente vegetale è magnificata da un fojòt edibile che imprime una forma inedita alla zucca. I vegetali in accompagnamento, trasformati da un processo di criogenizzazione, sono da intingere in una salsa a base aglio che, lavorato con lunga cottura, mantiene il suo aroma promettendo al contempo lievità. Una suggestione forse più concettuale che gustativa, per un piatto più gentile di quello che lo ispira. Anche con le portate successive, lo chef propone alternative underground a piatti della tradizione.
Se nel primo il ricordo visivo dei plin su fonduta spiazza al gusto con la rotondità del pistacchio che sostituisce il formaggio, è il Topinambur alla cenere a raccontare più di tutti l'impegno e l'ardore del lavoro di Chiodi Latini. Tutto il tubero di tutti i tuberi del fornitore, anche quelli più piccoli e difficili, trovano un impiego, senza spreco. Il fondo, realizzato con le bucce cotte per due giorni a 94 gradi, riecheggia per intensità e consistenza un fondo bruno, finendo per avvicinarsi al ricordo di un caffè. Quando si giunge al dessert, si gioca ancora e si vira persino sull'amaro: una piccola pera madernassa marinata nella salsa di soia viene presentata come strumento per distruggere le lettere di un manifesto scritte con una meringa morbida di ceci bruciata.
Segue un altro dessert, Bicchiere al gianduia, in cui un'intensa nocciola delle Langhe si prende la scena, colando a mo' di zabaione sul contenitore edibile a base di mandorle. Anche la carta dei vini, che porta il nome di “Aratro”, spiazza. Al bando la classica struttura “bollicine - bianchi - rossi", qui si divide in:
- polveri, con i vini rivolti verso l'alto, come le bolle;
- sassi, con i più minerali;
- zolle, con vini da contatto, a macerazione prolungata;
- terre, con le produzioni che raccontano in maniera più marcata i territori di appartenenza.
La suddivisione si pone come metafora della gestualità dell'aratro nel campo: rompe la terra, divide le zolle, solleva le polveri e sposta i sassi. Vengono proposti in sala da Giorgia Chiodi Latini, brillante figlia dello chef, anche più modalità di audaci pairings analcolici con:
- infusioni di cibo selvatico;
- miscele aromatizzate di produttori selezionati a rotazione;
- succhi di mela di montagna;
- fermentati ZTL-MDP-XANANX realizzati a Roma con Leonardo di Vincenzo, ex di Birra del Borgo, ora in società con lei.
Oltre al ristorante, che registra ormai un certo numero di affezionati che tornano a ogni cambio menù e molti stranieri in visita a Torino che prenotano con largo anticipo, il progetto di Chiodi Latini comprende:
- una gastronomia vegetale ospite di Iperbiobottega, tra i primissimi supermercati in Italia orientati su scelte bio e naturali, sempre a Torino.
- Emporio vegetale, una selezione di prodotti frutto della sua ricerca confezionati soprattutto per il B2B in ristorazione.
Contatti
Antonio Chiodi Latini
Via Antonio Bertola 20/B, Torino
Tel 011 0260053 - info@antoniochiodilatini.com
Orari di apertura: mar-sab 12-15 / 19-21