Solidità e visione strategica oltre il piatto, per un'insegna capace di riempire il locale senza cedere a deviazioni modaiole: Marco Martini mette a segno un modello d'alta cucina che funziona, sfidando la Roma "tutta ghingheri e lustrini". Il credo di uno chef-imprenditore e della sua valida squadra.
"Un ristorante non è una gallery di foto su Instagram, né un concetto filosofico astratto: per gestirlo bisogna farsi bene i conti, anziché fare corsi di storytelling. Se lavori a regime metti sempre due cose in cima alla lista: dipendenti e clienti. I primi pagati e appagati, i secondi felici di tornare. Poi parliamo anche del resto".
Marco Martini lo incontriamo vis à vis un venerdì sera negli ambienti dell'enoteca Mantis - un piano sotto l'omonimo stellato e un piano sopra le aspettative di ritrovarci ad affrontare i temi caldi dell'entourage gastronomico sovraesposto. La sua intro quasi ci spiazza: non parte dalla sfilza di premi incollati sulla porta, tanto meno cavalca l'onda lunga del nuovo menu degustazione. Marco sembra voler snocciolare i dati concreti al posto della favoletta gourmet, sfidando la Roma tutta ghingheri e lustrini immersa nella congestione del weekend.
Le persone arrivano in gruppo, sono compagni di serata e mai paganti anonimi da schedare col numero di tavolo. Il discorso fila, i fatti parlano. "Diamo un occhio in cucina": lo chef s'alza d'un tratto dopo averci allungato due frittelle alle alghe di Mantis, sfizio tattico "rubato" all'uso dei pescatori che tramutano in delizia i rimasugli attaccati alle reti. "Chi vive di sacrificio affina l'ingegno". È il pre-cena che non ti aspetti, nel momento di massima tensione per l'inizio del servizio. D'istinto ti immagini uno sferragliare ansiogeno, la squadra nervosa, la postazione trafficata. Invece eccola lì, la brigata a farti l'occhiolino mentre lo chef apre la cella coi prosciutti stipati in bella fila. La tensione positiva oltrepassa i vetri: stai vedendo in diretta come gira la ruota di un ristorante "che ad andare va". Pure controcorrente, oltre il main flow.
Lo chef e il ristorante
Marco ha detto in 30 minuti più di quanto avremmo potuto cavargli a posteriori sulle portate assaggiate in 3 ore di cena. Ha detto forse quel che di solito stentiamo a scrivere: la ristorazione è fatta di ciò che non appare, fondamenta invisibili alla base di una torre di piatti impilati. Il rispetto verso una squadra a cui infondere sicurezza. Il fornitore in carne ed ossa oltre il codice a barre. La coerenza di presentare cibo vero al netto dei sofismi cerebrali. L'insieme di pragmatismo, strategia, economia. E ora che l'abbiamo messo nero su bianco possiamo pure scorrerli i menu, perché i veri ingredienti stanno a monte.
Anzitutto, il fine dining ha la sua controfigura smart: chi vuole cena nella neonata enoteca (anch'essa gestita da Martini col socio e sommelier Andrea Farletti) a una rampa di scale di dislivello. Chi invece sale accede all'insegna principale, il riflesso di un cuoco che dagli inizi ad oggi ha portato il macaron per tre volte in tre sedi diverse, guadagnando a suo tempo il titolo di più giovane stellato d'Italia. E pensare che aveva esordito col rugby, la competizione nutrita da anni di workout. Invece, alla fine, la meta l'ha segnata al pass.
Nel mezzo le evoluzioni al fianco di Antonello Colonna, il training londinese da Tom Aikens, la tempra dell'ex ragazzo nato a Colleferro che s'apre una via tra i fumi densi della "cucina cucinata". Uniche scorciatoie, quelle per rincasare a notte fonda schivando il caos capitolino. Di riflesso, è come se l'apertura comunicativa desse forma a un locale dai profili taglienti, schietto e materico nella gestione delle luci che invadono lo spazio grazie all'ampio coverage di vetro. Lo sguardo cade a intervalli regolari sulla pavimentazione a ghirigori, sui tavoli nudi privi di tovagliato e -ancor prima- sui toni distensivi del giardino d'inverno all'ingresso della villa liberty che ospita l'insegna.
A stringere il doppio nodo fra stage e backstage, l'accoglienza spigliata (e i calici) di Andrea Farletti, che con gli anni ha improntato una cantina "outside the box" ricca di referenze esclusivamente naturali (ben prima che l'etichetta pulita diventasse un must have). Ne deriva un crescendo di vini dal sorso pimpante, capace di dialogare con le portate dei quattro itinerari in menu, complice la selezione dell'ottimo maître e sommelier Giuseppe Rastelli.
A proposito: la tipicità schizza in pole position con i Romanissimi, un crossover di "piatti forti" che viaggia dal Tiramisù di coda alla vaccinara al Rombo, saltimbocca e puntarelle (150 euro per 6 corse). Assorbe tinte e fragranze stagionali l'itinerario Percezione (6 atti a 165 euro), mentre Empatia tasta il terreno della scoperta, proponendo 10 passaggi totalmente al buio (195 euro). Ultima solo per elencazione, la formula Veg-etariana, fermo restando il libero excursus alla carta. Tornando per un attimo dietro le quinte, impossibile non citare il "dream team" composto dallo chef Dino Felici e il sous chef Simone Carmignani, "forza motrice di un progetto che tutt'ora non mi stanco di chiamare 'sogno'", confessa Marco -una mano sui lacci del grembiule e un piede già in cucina.
I piatti
Non c'è il tipico ritornello "spreco zero" ad accompagnare il benvenuto: parla da solo l'involucro trasparente che avvolge il cracker "100% semi", da portare via dopo il pasto nel caso in cui ne avanzasse un pezzettino. Strano ma vero: doggy bag inclusa e nessuna retorica autocelebrativa. Quindi il raggio d'azione si estende via via sulla mappa godereccia dell'Urbe, fino a seguire tracce orientali: sfilano in sequenza l'etereo Riso soffiato con insalata russa, il Takoyaki, cocktail di gamberi e salsa rosa fumé e l'alter ego salato del Cono gelato (una cialdina ripiena di amatriciana, punta di pecorino e guarnizione di pecorino disidratato a mo' di granella).
Poi lui, "Il nido", la nascita della carbonara in un sunto efficace di trame complementari: spuma di Parmigiano, uovo marinato, mezza manica e guanciale. Il primo piatto che se ne sta comodamente nel guscio appena schiuso, uno schiaffo elegante alle carbocreme inflazionate.
Avreste mai pensato che un antipasto di pesce potesse ricordarvi il mash up di sapori di una pizza ultracondita? Accade nella Seppia alla Capricciosa, che riallaccia l'eredità popolare allo studio di precisione sulla materia. "Agli inizi consegnavo tonde a domicilio, è il mio background pre-culinario. Da qui l'idea di potenziare ogni singolo elemento della Capricciosa", spiega lo chef. Ci sono i carciofini sott'olio fatti in casa, la salsa di prosciutto cotto, le olive infornate, l'ovetto di quaglia marinato da rompere al momento. E infine gli champignon abilmente "travestiti da porcini" -"crudi, disidratati per poco tempo, quindi panati col 'fungo nobile' per enfatizzarne la terrosità e i sentori profondi di bosco".
A spingere il ping-pong tra sostanza e apparenza, Marco introduce un principio di norcineria di mare: nella "Sogliola e porchetta" il pesce viene speziato esattamente con lo stesso metodo di lavorazione del suino, "mentre per simulare la parte croccante della cotenna ne essicchiamo la pelle". Così quando mangi arrivano due impulsi paralleli: da un lato lo scrocchio sonoro, dall'altro gli effluvi fragranti della crosticina. Anyway, il maiale non scompare: si riprende la scena in corsa, la sua pancia aromatizzata dal finocchietto che lo chef ha raccolto nei mesi estivi. "Piante ed erbe spontanee ce le procuriamo noi". Tant'è, per sgrassare le guance bastano un fondo di sogliola al limone e una foglia di bieta al vapore.
Non può mancare la Cacio e pepe, però "nascosta nella pasta". È infatti il ripieno di un Fagottello con gamberi all'ajillo e finger lime: l'interno "scaldacuore" che esplode generoso, rilasciando tutto il comfort della cremina di formaggio; l'esterno schizzato da un motivo di rapa rossa e carbone, quasi psichedelico per l'impatto cromatico.
"Sopra ho scelto l'accoppiata coi gamberi bianchi, stile 'trattoria madrilena' e 100% fedele alla ricetta povera spagnola. Il gambero rosso ti semplifica la vita, ci metti una decorazione scenografica e sei a posto. Quello umile, meno blasonato e maggiormente complesso da trattare, ti spinge invece ad elaborare la preparazione". In sintesi, poco aglio e olio: Marco corregge le storture del piatto turistico per riproporlo netto e onesto. "Il corpo intero dei crostacei va a comporre un fondo con cui mantecare il fagottello, il finger lime rende le papille arzille. Per me l'acidità è la miccia della curiosità, diversamente incroceresti le posate a metà degustazione".
Altro giro, altro formato: stacco netto con gli inconfondibili Bottoni alla picchiapò, fasciati in abiti mimetici da tre topping contrapposti: cime di rapa, pecorino romano e ricci di mare, un camouflage piacione fra il terrestre e l'acquatico.
"Il 'Mari e monti' è un mio pallino, come pure l'idea che i tagli di recupero non siano 'miseria', ma nobiltà", chiosa Marco. "Di fatto, i trend li ignoro: ciò che lascia il segno è la memoria storica". E allora bollito sia, dissociato dal pecorino romano che ispira una salsa a guarnizione. Regola i conti il doppio bilanciamento, amaro per il vegetale e iodato nei ricci al limone. Sfacciatamente ghiotto è, fra i secondi, l'Agnello al pepe verde, reso dinamico da dischi di rapa bianca e scalogno marinato.
Giusto il tempo di immaginarsi il Grand dessert e compare a sorpresa una "banana azzurra" della varietà Blue Java, audace nell'estetica minimal e nel basso grado zuccherino. "Perché i dolci troppo dolci stimolano la voglia di salato. Al contrario, con una rotondità soft ti alzi leggero e soddisfatto". Il fine pasto che sintetizza i taccuini di viaggio, più una vivace carica aromatica. Obiettivo, unire i pigmenti freddi del frutto hawaiano non ancora maturo e gli accenni vanigliati di quello già "in stato di grazia".
"No, non è la copia di un'opera moderna. In questi casi basta osservare la natura da vicino. Perché noi cuochi non siamo artisti, siamo artigiani".
Contatti
Marco Martini Restaurant- Mantis
Viale Aventino, 121, 00153 Roma RM
Telefono: 06 4559 7350