“La mia linea è all’insegna della semplicità, pochi ingredienti e molto gusto”. La cucina di Emin Haziri non muove per estremi. Il suo menù è una coccola prolungata che attiva la lingua nelle sue zone più confortevoli, quella dolce e quella salata.
Lo chef e il locale
La cartellonistica e le affissioni non sono sparite. Resistono alla pubblicità sui social. E anche alla grande. I multiversi digitali non riescono, per ora, a scalfire quel bisogno di fisicità, di analogico così attraente. Anche se appartieni alla generazione zeta o a quella della nuova lettera che verrà. A Milano, sui tre ponti di viale Forlanini, in alto sulla destra, c’è un cuoco su un cartellone pubblicitario. È Emin Haziri, chef e socio del ristorante Procaccini, aperto qualche mese fa proprio in via Procaccini, lì dove sorgeva uno dei locali della catena di pizzerie Cocciuto. Uno chef che usa l’affissione come mezzo di comunicazione non l’avevamo mai visto.
A meno che non sia ingaggiato da un brand di formaggi, patatine, pentole o cucine. Qui infatti è uno chef che si promuove. Non possiamo dire sia una pubblicità dal grande impatto creativo: c’è la foto dello chef, il nome del ristorante, presentati con un trattamento del tipo premium chic. Veniamo a sapere che il cartellone di viale Forlanini non è l’unico. I ristoranti fanno strategia di marketing? A nostro parere devono farlo, tenendo conto del loro scope of work, come direbbero gli esperti di settore, della loro posizione geografica e della loro reputazione. In tanti si stanno strutturando con una strategia e un tono di voce social.
In pochi scelgono l’affissione. Forse è stato il secondo socio, un imprenditore attivo nel campo della climatizzazione, a suggerire questa opzione comunicativa. Per un accordo precedentemente preso o forse solo perché lui al potere dell’affissione crede davvero. Sicuramente la faccia di Emin sui poster ha fatto parlare la comunità della ristorazione e dell’accoglienza milanese. Qualcuno addirittura sembra aver storto il naso.
Emin è originario del Kosovo. Nel 2002 arriva a Trieste come rifugiato, dopo quello che, sempre troppo leggermente, chiamiamo viaggio della speranza. Forse perché siamo riusciti, ahinoi, ad abituarci anche a quella. Per un bambino come Emin esistevano due passioni. La prima era il calcio, la seconda cucinare. La prima viene coltivata bene, c’è anche talento in famiglia, come testimonia il professionismo raggiunto dal cugino di Emin, Mërgim Vojvoda, attuale difensore del Torino e della nazionale kosovara. Tuttavia un infortunio, stronca il sogno di Emin proprio nel periodo di fioritura. Non rimane che la cucina, in cui Emin promette bene tanto quanto nel calcio. Va da sé che per uno come Emin, lo spirito da spogliatoio, la tensione del pre-servizio, il gioco non da veneziani, siano parallelismi più che leciti, quasi indispensabili.
“Mi sento un allenatore. Come carattere mi sento allenatore. Tuttavia anche io sono un ragazzo come loro, sono un pazzoide e mi diverto assieme alla brigata. A un certo punto il mio compito è ristabilire e trasmettere la serietà. Sono sia un compagno di squadra che una figura distaccata. Devo sapere essere friendly, per far capire ai ragazzi dove arrivare, ma nel frattempo devo comunque rimanere autorevole nel gruppo, per non far prevalere quella leggerezza che poi si traduce in un lavoro poco attento e distratto. Ogni tanto qualche tackle lo devo fare. Però poi aiuto a rialzarsi”.
Milano non è uno stadio semplice. Curve, distinti, stradistinti e semidei. Ospiti locali, ospiti stranieri. Catenacciari della tradizione, tikitakkari della sperimentazione. Showbizionisti e osteriani. Gastrofighetti e camionisti in trattoria moderna. Senza contare che lo stadio è in condivisione non tra due, ma tra migliaia di squadre. In questo campionato, avere qualcuno che ti canti un inno e che ti sia fedele è un’impresa.
Da Procaccini il modulo è quello di un ristorante che ti fà brillare gli occhi, le papille e anche le orecchie. Una guardia all’ingresso setta immediatamente la tipologia del locale. Segue l’arredo in cui uno stile anni ‘70 si mixa al “naked” dell’industriale. La pietra onice banchetta con il rovere bianco. Non manca il cocktail bar e nemmeno lo chef table. Un pianoforte a coda non è solo un elemento d’arredo. Ad ogni servizio, un maestro siede allo sgabello e fa andare le dita senza sosta fino alla piccola pasticceria. A nostra memoria non ci sono altri locali milanesi che servano cover di Coldplay, Radiohead e Oasis o dalle colonne sonore di Forrest Gump e Il Pianista sull’oceano. Ci ricordiamo anche Morricone.
Marketing? E perché no. Tutto può servire a generare passaparola e a non far passare la voglia di tornare da Procaccini. "La mia idea è sempre stata quella di aprire qualcosa di mio, con il mio stile. Prima di diventare soci, Paolo era mio cliente. Veniva a mangiare e non si è mai presentato. Era uno di quei clienti che tornava. Poi un giorno mi ha inviato un messaggio via linkedin e da lì abbiamo iniziato a parlare. Voleva investire completamente su di me. Ci siamo conosciuti, siamo diventati amici. Tra noi c’è grande rispetto reciproco. Da Antonino stavo bene, conoscevo tutti, lo chef mi dava carta bianca, ma ero arrivato ad avere troppi comfort. Il momento per staccarsi e mettere a frutto la mia ambizione era arrivato".
L’equazione di accostamento tra Emin e Cannavacciuolo è fin troppo semplice. Per quattro anni è stato al Bistrot di Torino e ne è diventato responsabile, conservando la stella. Ora l’unico nome che ha sulla casacca è il suo.
La cucina e i piatti
La cucina di Emin non muove per estremi. Il suo menù è un coccola prolungata che attiva la lingua nelle sue zone più confortevoli, quella dolce e quella salata. Basta un’occhiata ai menù degustazione e alla carta per capire che la stagionalità convive con quella voglia di esagerare un po’, dell’esotismo lussureggiante, della tangenzialità all’opulenza. Per questo troviamo piatti con aragosta, caviale o wagyu o anche un menù solo crudo. Procaccini non è una trattoria, è un finedining senza spigoli e con molte carezze paiettate.
“La mia cucina è all’insegna della semplicità, pochi ingredienti e molto gusto. Deve piacere a tutti. Non ci saranno mai arie - c’è quella del pianoforte - non ci sarà mai una finta carota. Il mio focus è che la gente deve venire, staccare la testa e soprattutto ritornare. Non siamo al Noma dove tu fai un’esperienza one-shot e finisce lì. La mia cucina è tradizione e ricordo”. L’accoglienza è informale, in sala non si sente la pressione dell’osservato speciale. Anche se di speciale c’è sicuramente il taglio del pane al tavolo e un sontuoso carrello di formaggi. Il nostro menù esordisce con Gambero rosso di Mazara del Vallo, limone salato, mandorle.
Il layout del piatto non ci ha convinto, la corona di mandorle ritagliate ci ha dato l’impressione di poca cura nella presentazione. Forme diverse, bordi sbeccati. Insomma l’occhio vedeva più glitch che altro. Il piatto in realtà ci ha soddisfatto. Patate, funghi e nasturzio è un vaso di comfort zone, in cui il connubio patate e funghi quasi straborda. Interessante la scelta del nasturzio a fare da contraltare amaro, sapido. Anche se la quantità elevata di crema di patate non ha giovato a un pieno equilibrio del piatto.
Sgombro, barbabietola, yogurt e ristretto di pollo: senza dubbio il piatto più interessante della serata. Perché rompe gli schemi della dolcezza oltre ad essere impaginato perfettamente, al contrario del primo. Il piatto in cui emerge la tecnica di Emin e la capacità di esaltare gli ingredienti più poveri. Siamo in un film dove gli underdog vincono contro i figli di papà, che avranno anche le cabrio e i vestiti griffati, ma non la presa sulla vita e il talento di chi si sacrifica per rivalsa o crescita personale. C’è un rumore acido di fondo in questo piatto che suona sincronicamente all’intensità del ristretto di pollo. Sgombrate la strada.
Dura poco tuttavia. Uno tsunami di dolcezza inonda il palato, lo accarezza e lo avvolge con le Linguine di Pastificio Graziano, aragosta e salsa champagne. Sono forchettate seducenti, soft porno. La grande quantità di bisque trascina un po’ il finale, lo appesantisce. Per fortuna c’è dell’ottimo pane per raccogliere la scarpetta. In chiusura si ristabilisce la leggerezza con Baccalà, trippa di baccalà e cipolla affumicata. Un baccalà smoked ben eseguito, in cui un fondo di terra va a “sporcare” il mare, con una corrente di intensità e sostanza.
Sui dolci sicuramente meglio Babà e frutto della passione di Cioccolato, grue di cacao e nocciola. Siamo all’ultimo miglio, la freschezza vincerà sempre sull’opulenza. Menzione honoris a Edoardo, sommelier istrionico che ha reso il servizio per niente ingessato e a tratti spumeggiante.
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