“Sarebbe solo il teatro d’una scena aperta se Christopher Storer non riuscisse, tramite il personaggio di Carmy, a farne – con un’inverosimile ossessione del dettaglio giusto – lo specchio delle paure e delle ambizioni di tutta una cuochesca generazione”. Andrea Petrini e alcuni volti noti della ristorazione contemporanea raccontano la terza stagione di The Bear.
Foto di The Bear: Crediti FX- Disney Plus
"Carmy, non fare l’idiota: chiama Claire!"
Il rimbrotto viene dal cuore. Per un anno avevamo vissuto nell’angoscia, insieme a milioni d’altri telespettatori, che quell’imbecille di Carmy non prendesse il coraggio a quattro mani per scusarsi con la sua morosa. L’avevamo lasciato alla fine dell’ultimo episodio della stagione 2 di “The Bear”, psico-rigidamente bloccato nella camera fredda del suo ristorante la sera stessa del primo servizio al pubblico, tra picchi d’adrenalina e definitive crisi amorose. Un anno più tardi, è successo di tutto e anche di più. La serie televisiva, diffusa su Disney +, si è aggiudicata una terza stagione ora mondialmente disponibile, con già l’immenso successo planetario che si sa, e una quarta annunciata a breve. Diventando cammin facendo un fenomeno di costume, di società. Di sicuro il primo oggetto televisivo sulla cucina – dai discutibili fasti di No Reservations d’Anthony Bourdain – a sventolare lo stendardo della pop culture.
Per quelli tra di noi rimasti ai tempi dei reality e di MasterChef, “The Bear” racconta la storia di un ragazzo come tanti, giovane cuoco fuggito per la carriera all’altro capo del mondo ma costretto a rinnovare con Chicago, la sua amata/odiata città natale, dove riprende in gestione, in seguito al suicidio del fratello, il caotico fast food famigliare. Dalle stelle alle stalle, ritorno ai basics: ai sandwiches di vitellone. Ma il lupo perdendo il pelo, riecco il vizio: con l’urgenza di razionalizzare, ristrutturare, innovare, poco a poco il bugigattolo sogna di far pelle nuova. Novelli accoliti entrano in campo – Syd, cuoca ambiziosa promossa braccio destro –, vecchi pilastri inviati in corso d’aggiornamento sul terreno, Tina la cinquantenne latina dal cuore buono, nonché Richie, il cugino di sempre, il più borderline, forse il personaggio più commovente. Christopher Storer, alla regia, mette in scena il rumore e il furore in modo psicodramma live d’un ristorante che sotto i nostri occhi rinasce, come la fenice, dalle sue ceneri. Rischiando di bruciarsi.
Nel pathos dell’istante e della corsa contro il tempo, il gruppo evolve in disfunzionale comunità – Markus, il pasticcere tuttora folgorato dal suo stage al Noma, Fak il factotum tra cacciaviti e servizio bancale in sala (Matty Matheson, il tatuatissimo cuoco canadese in un burlesco ruolo tagliato ad hoc per la sua corpulenta dismisura). E al centro, colto nel suo monomaniaco, impossibile perfezionismo, Carmy, il protagonista principale, lo chef universale – l’orso di The Bear, animale in gabbia, perso a se stesso e a tutti i suoi (Jeremy Allen White, recentemente visto in “The Iron Claw” e dappertutto in attillate mutande bianche per l’ultima campagna pubblicitaria della linea Calvin Klein Underwear). Un bel teatro d’ombre d’attardati millenials, tra i quali spicca per contrasto Jamie Lee Curtis, mamma assente, prigioniera e matrice dei traumi collettivi, definitivamente persa nelle brume dell’alcol e della sua follia, forse qui all’apice della sua carriera. Altro che Big Night, altro che il Festino di Babette, i pigri programmatori di festival cinematografici sono avvisati: la Cena di Natale dell’episodio 6 della seconda stagione seppellirà, col suo crescendo di tensione e di vetriolici dialoghi su ferite suppuranti, qualsiasi dibattito sulla rappresentazione del cibo e dei pasti inscenati al cinema o in televisione. Classe 1981, Christopher Storer sa di cosa parla e meglio ancora quel che filma.
Nativo di Park Ridge, suburbio di Chicago, Illinois, dove conobbe nei suoi verdi anni il veridico sandwich joint “The Beef” che è all’origine della serie, conosce bene la sua città d’adozione. La ritrae senza trucchi né fard nella sua durezza e specificità, alter ego di NY sulla stessa costa est, ma comunità locale colta qui al passo con la fauna dei quartieri popolari. Sarebbe solo il teatro d’una scena aperta se Storer non riuscisse, tramite il personaggio di Carmy, a farne – con un’inverosimile ossessione del dettaglio giusto – lo specchio delle paure e delle ambizioni di tutta una cuochesca generazione. “Guardando le due prime stagioni mi son subito resa conto che certi particolari, certe manie – le etichette col nome dei prodotti incollate in un certo modo e non in un altro sui Tupperware disposti sugli scaffali – potevano venire solo da una persona con una conoscenza veramente di prima mano del mondo della ristorazione” riflette Sabrina Piazzi, proprietaria della piacentina Locanda del Falco. “I giovani cuochi, e non solo, mi ci metto anche io, si riconoscono appieno nelle vicissitudini di Carmy e della sua banda.” Ancora un po’ e potrebbero intonare tutti, come il Flaubert di Madame Bovary, “Carmy sono io”.
“E’ chiaro che il suo personaggio mi parla, e tanto. Mi ritrovo, come immagino altri della mia generazione, nelle sue ossessioni, il coinvolgimento totale nel progetto d’un ristorante che richiede il 100% delle energie. Senza compromessi all’orizzonte, col rischio di mettere in pericolo il privato, di voltare le spalle alla sfera personale e di lasciar appassire la vita sentimentale. Accadde anche a me con una mia passata fidanzata” confessa l’appena trentenne Mirko Pelosi e più di dieci anni passati tra Edimburgo, Berlino, Oslo (dal tre stelle “Maaemo”) e poi dal maestro Mathieu Rostaing del “Sillon” di Biarritz nel paese basco francese. Prima di lanciarsi in proprio questa primavera all’Antidoto, romana enoteca di vini naturali dove, dietro il bancone, officia letteralmente da solo. “Lavo io stesso pure i piatti. Carmy è una sintesi della figura di tanti cuochi, con le sue fisse – ad esempio quelle dell’organizzazione d’una “cucina alla francese”, cosa un po’ sorprendente a prima vista – però è chiaro che è parametrato sul modello dei cuochi d’oggi. Lo si avverte nell’abnegazione dispiegata, nella cura del dettaglio, nella fissa dell’impiattamento – scarno, ridotto all’essenziale – che fa tanto post Nordic. E’ l’estetica corrente d’una generazione come la mia, cresciuta con Internet e adesso con la mania d’Instagram, della fotogenia d’un piatto che oltre ad essere buono e interessante deve essere pure bello. Col rischio sempre più comune d’invertire le priorità.”
Christopher Storer novizio non è. Spalla a spalla con sua sorella Courtney, cuoca di professione e culinary producer per la serie, il regista fa della comune complicità un vero duo a 360°, camera d’eco del mondo del food col quale é cresciuto, collaborando ben dieci anni prima dell’avento di “The Bear” con le migliori menti della sua generazione, gli agitatori della rivista di David Chang “Lucky Peach” in primis. Fu sotto l’istigazione dell’allore capo redattore Chris Ying che nel luglio del 2016 Storer firmo’ un elegantissimo post-teaser per GELINAZ!, documentando la performance di Riccardo Camanini, Danny Bowien, Dominique Crenn, Paul Cunningham, Christopher Kostow, Daniel Patterson et Joshua Skenes eseguita in modo split screen simultaneo nei due ristoranti del tre stelle Corey Lee, “Benu” e “In Situ” a San Francisco. E se “The Bear” fosse a modo suo un roman à clé? Dietro ogni personaggio, appare l’ombra d’un altro, si cela una citazione, un omaggio appena velato. Chicago si profila personaggio a tutto tondo. Quando Syd si offre un aggiornamento culturale facendo il giro dei top ristoranti in città, secondo voi dove si mette a tavola se non da Kasama, Elske e da Avec? C’è di più: “Ever”, il celebre fine dining di Curtis Duffy, è non solo evocato a ripetizione ma, nell’episodio 7 della seconda stagione, accoglie Richie, futuro Maitre d’H, per tutta la durata del suo stage immersivo. La gastronomia è per i nonni, la domestica cucina per gli angeli del focolare. Ma la food è consacrata dai toccati d’oggidì su Tik Tok.
Moltiplicando i segni esteriori della più riconoscibile fotogenica attualità – forbicette, fermentazioni, asimmetrici contrasti nell’impiattamento – Christopher Storer filma la cucina come un campo aperto, nella conflittuale interazione dei characters. Certo, ognuno potrebbe sindacalmente rivendicare uno spin off proprio. C’é Tina, la Kamala Harris latina della cucina, tutta una vita di stenti e di grinta contro l’avversa sorte, c’è Syd che magari nella prossima stagione tradirà come si suole Carmy, il suo datore di lavoro, Richie fantastico white dude erede della tradizione proletaria degli ultimi film di Robert Mulligan. E poi Claire, l’amore d’una vita, vigliaccamente abbandonata. Un bel serraglio, gruppo di famiglia in un interno, da tempo mai così commovente visto in televisione, meglio ancora d’un teatro di camera alla Ibsen filmato da un Cassavetes sotto cocaina. La terza stagione prende il passo sulle due precedenti, allevia la tensione, mette il focus singolarizzando le traiettorie personali. L’improvvisazione, più ragionevolmente controllata, si fa da parte, offrendosi il destro d’un parterre di featurings francamente senza pari. Alla testa di ben sette ristoranti a Copenaghen, la messicana Rosio Sanchez, un tempo pasticcera da Noma e da sempre Chicago girl forever, torna spesso nella sua città natale.
Si ricorda bene “di aver incontrato Courtney Storer ad una cerimonia negli States. Avevamo simpatizzato, lei mi aveva detto, un giorno dovremmo fare qualcosa insieme. Però non mi sarei mai aspettata di essere un giorno invitata ad interpretare il mio proprio ruolo nell’ultimo episodio della terza stagione. Ritrovandomi sul set con Cristina Tosi, Will Guidara, l’altra metà di Eleven Madison, nonché Wylie Dufresne, il pioniere della cucina modernista americana. Fu lui il mio mentore, il primo a darmi fiducia in me stessa, ad aprirmi le porte del suo mitico WDF-50 a New York. Christopher e Courney hanno concepito questa scena finale come il flusso ininterrotto d’una serata a cena, d’una lunga conversazione in cui abbordavamo liberamente temi e soggetti a noi comuni, la paura, la durezza del mestiere, l’abnegazione al lavoro, la violenza rivolta contro noi stessi e gli altri, implicita nelle dure condizioni di lavoro al ristorante. Questo episodio fiale suona vero, non ha note storte, perché è stato filmato come una riunione di famiglia, un raduno di amici. Che prima ancora di essere davanti alla camera erano tutti dei fan di The Bear. Tra l’altro Will Guidara ha non poco aiutato gli Storer per tutta questa terza stagione verificando l’esattezza dei tremila dettagli, dei ritmi e dei gesti precisi, gli elementi di linguaggio, in sala come in cucina, strettamente legati conduzione d’un fine dining al quotidiano”.
Dufresne, Guidara, Sanchez e Tosi sono in buona e allegra compagnia. Nel corso degli episodi precedenti altre celebrità si son volentieri prestate agli onori della “partecipazione straordinaria di”. Vediamo cosi’ Daniel Boulud, padella in mano, insegnare a Carmy i segreti della più gentile cottura in pieno coup de feu, Thomas Keller commentare i valori “famigliari” della trasmissione. E persino René Redzepi, va a lui il trofeo del più ironico cameo – inquadrato da lontano, un po’ flou, fantomatica e messianica apparizione. “Non sono solo delle comparsate” continua Rosio Sanchez. “Per Christopher non è un pretesto per fare il fico col name dropping a tutto spiano. Sapendo che The Bear è un oggetto televisivo non identificato, che mira dritto al cuore dei più giovani chef, quei trentenni o al massimo quarantenni che si riconoscono nelle vicissitudini di Carmy e della sua corte, per lui avere Boulud, Keller o René era un modo per rendere un omaggio sincero a queste storiche figure. Che tanto fecero, e tuttora fanno, per la cucina di oggi e di domani.”
Resta nondimeno che, alla fine della terza stagione (attenzione: spoiler) non sappiamo se Carmy prenderà o no il coraggio a quattro mani per scusarsi col suo amore di sempre, Claire. Se solo lo facesse, la serie televisiva potrebbe svincolarsi un tantinello dalla bromance a torto e a traverso, arricchendo la gamma espressiva della stagione a venire con un velo di più intimiste tonalità. Ma lo si sa, in cucina i sentimenti son lasciati nell’armadietto del vestiario. “E’ un po’ il limite della serie” puntualizza Pietro Carlo Pezzati, lo chef della Locanda del Falco che ne sa una più del diavolo. Di ritorno nella regione piacentina dopo un’esperienza estera di dieci anni, si riconosce appieno, fin troppo addirittura, nei personaggi di The Bear. Carmy lo chef, potrebbe essere il suo doppio. “Non solo il mio ma anche quello dei millenials che fanno lo stesso lavoro. Siamo troppo simili, quasi tutti delle copie conformi, abbiamo spesso se non gli stessi difetti almeno gli stessi comportamenti condizionati. Eppure c’è una vita oltre le pinzette, gli schizzetti e le goccioline di salsa nel piatto.
Mettiamola cosi: immagiamo che The Bear sia un film sul judo, sulle arti marziali. In queste pellicole arriva sempre il momento in cui l’allievo raggiunge il maestro, magari lo supera anche, perché ha infine trovato il suo stile, la sua via. Magari accadesse lo stesso a The Bear, il protagonista principale ma anche la serie stessa. Dovrebbe uscire pure lei dal recinto stretto della cucina. Se invece non oltrepassa questi confini, se resta relegata nel medesimo orizzonte mentale, allora le cose diventano ben prevedibili. Come lo sono spesso anche per noi. Che difficilmente sappiamo conciliare l’antinomia tra il lavoro e la sfera privata. Allora sì, nella prossima stagione magari il ristorante farà furore, otterrà stelle e ricompense a bizzeffe. Magari Syd, stanca di fare solo l’aiuto, se ne andrà per aprire un ristorante tutto suo. Magari capendo certe cose o anche no. E Carmy? Riuscirà a scusarsi con Claire, a riannodare i fili della sua relazione? Per tanti, troppi cuochi, anche quelli della mia generazione, il lavoro passa prima della sfera privata. Ma non si vive solo al pass. Dalla fissa del successo a tutti i costi se ne esce difficilmente. Per Carmy e Claire, io la vedo male. Son pessimista perché so quanto difficile sia per noi cuochi, nel tunnel senza uscita del quotidiano, lasciar entrare una botta di vita… nella nostra vita.”
Si dice sempre, “la cucina, un mestiere d’avvenire”. Ma per i rapporti personali, magari no. Ai posteri l’ardua sentenza. Se son rose, fioreranno. Sennò beceramente appassiranno. Suspense, solo la quarta stagione di The Bear saprà o no dissipare il mistero. Mai attesa fu più snervante. Né più ne meno, ne va del futuro della corporazione dei Jeunes Restaurateurs du Monde.
Le tre prime stagioni di “The Bear” sono disponibili su Disney +.