Il quotidiano a stelle e strisce pubblica l’ultimo editoriale del celebre critico gastronomico, che dopo 12 anni di onorato servizio si congeda dal comparto. Coglie l’occasione per tracciare un bilancio dell’evoluzione della ristorazione tutt’altro che lusinghiero: “I ristoranti stanno diventando macchine automatiche con le sedie”.
La notizia
Ha fatto molto parlare di sé, in questi dodici anni, il critico gastronomico di The New York Times Pete Wells. Ad esempio, stroncando la svolta vegana di Daniel Humm, in un pezzo riecheggiato in tutto il mondo. Ora prende congedo senza rimpianti da un mondo di cui osserva le crepe, dove il dilagare delle app e del virtuale ha messo in mora il fattore umano, come descrive malinconicamente nel pezzo di commiato dalle colonne del quotidiano più importante del mondo.
“Sono alla fine di 12 anni trascorsi in veste di critico, che ha mangiato e recensito ristoranti senza sosta. Di questi anni, probabilmente, due mesi interi sono passati solo aspettando il conto”, scrive a proposito delle nuove app per il pagamento anticipato, che consentono all’avventore di alzarsi e uscire. “Rappresentano solo l’ultimo di una serie di cambiamenti, che hanno gradualmente quanto stabilmente estromesso il tocco umano e la voce umana dai ristoranti. Ognuno di questi cambiamenti è stato piccolo, ma tutti insieme hanno reso molto meno personale il fatto di uscir fuori a mangiare. Oggi i pasti sono differenti e anche il nostro senso di chi siamo lo è”.
Da giovane il critico concepiva l’esperienza gastronomica come prettamente umana, a dispetto dell’e-commerce e del lavoro a distanza. “Quando uscivamo a mangiare, eravamo di nuovo uomini. Nessuna macchina poteva bere un rosé al posto nostro o masticare costolette di agnello. E in ogni fase del pasto, c’erano delle persone a guidarci. Dal momento in cui entravamo, parlavamo con ospiti, bartender, maître, camerieri e commis. Essere serviti al ristorante non era qualcosa di passivo. Dovevamo partecipare”.
Ora molti passaggi, dagli ordini alla presentazione delle carte, possono svolgersi su schermo, scannerizzando un codice. Per non parlare delle prenotazioni, che ormai difficilmente si svolgono al telefono con le formule di rito (e per quanto sia un sollievo non sentirsi dire di no, in certi casi può insinuarsi qualche bot, pronto a rivendere il posto al migliore offerente, oppure il pagatore più forte può risultare avvantaggiato). Insomma “i ristoranti stanno diventando macchine automatiche con le sedie”. Ci ha messo del suo anche la pandemia, attraverso la consuetudine con le app di delivery. Oggi, tuttavia, non si ordina più con certezza dal ristorante familiare, magari è una ghost kitchen di misteriosi investitori.
Wells se la prende infine con la standardizzazione del fine dining, preso d’assalto da clienti che mai torneranno, intenzionati solo a instagrammare la loro presenza. Ed è proprio il bisogno di contatto personale, così frustrato, a spiegare il successo di pop-up e micro-bakeries. “Se dobbiamo restare in un ristorante più a lungo di qualche minuto, vogliamo entrare in connessione. I sorrisini di un cameriere, le battute rodate, l’entusiasmo per gli special del giorno potrebbero essere tentativi più o meno sottili di strappare una mancia, ma ci ancorano. Senza di loro il pasto può essere più economico e veloce, ma ci lascia un leggero sentimento di vuoto. E quando arriva il momento di uscire, non abbiamo voglia di dare un cinque al nostro ospite, ammesso che abbia ancora un lavoro”.