Lo Chef Lorenzo Lunghi stupisce con una cucina disarmante e istintiva, l’edificio e le innumerevoli ricchezze artistiche fanno il resto. La Torre della Fondazione Prada fra opere di design, panorama mozzafiato e piatti che lasciano il segno.
Foto: Crediti Torre Fondazione Prada
L’edificio
Attraversando il cortile dalla Fondazione Prada, con il sole che riluccica sulle duecentomila foglie d’oro di cui è ricoperta la Haunted House, mentre si raggiunge la Torre, nella sua magnetica asimmetria con altezze dei piani che passano dai 3 agli 8 metri, non si può non pensare a quando Miuccia Prada dichiarò al New York Times la sua attrazione per il “brutto”. Che di primo acchito crea un inevitabile cortocircuito, ma poi analizzando bene quanto affermato dalla stilista si comprende appieno che la sua avversione è verso una idea borghese di bellezza, verso una estetica canonica.
Molto più interessante indagare il contrario, che per lessicografia si definisce bruttezza, ma nel concreto si tratta sempre di qualcosa che genera fascino. Nella sua apologia della bruttezza il filosofo tedesco Karl Rosenkranz, a metà Ottocento, sosteneva che tutto ciò che è asimmetrico, distorto, difforme rispetto al mainstream suscita sempre un attraente interesse estetico. Qui, del resto, siamo di fronte a una maison che ha ricodificato il non convenzionale come nuovo paradigma di bellezza, offrendo una prospettiva inedita sull'estetica con un elevatissimo tasso di avanguardia. La Torre, progettata da Rem Koolhaas con Chris van Duijn e Federico Pompignoli dello studio OMA, è l’apoteosi dell’eterogeneità geometrica, la base trapezoidale si sviluppa in alcuni piani rettangolari, sul lato principale, grandi triangoli sporgono come ritagli nella facciata.
Percorriamo i sessanta metri dell’edificio su un ascensore a vetro che per un effetto ottico sembra muoversi in obliquo, completamente rivestito di onice rosa retroilluminato e dopo aver superato i piani che ospitano Atlas, la Collezione Prada permanente curata da Germano Celant, raggiungiamo il ristorante Torre, al sesto piano. L’accoglienza da parte delle signorine al ricevimento, in mise nero totale Prada, con sandalo e calzino, è di una raffinata algidità. L’attenzione è richiamata in primis dalla monumentale bottigliera sospesa alle spalle del bancone bar e, immediatamente dopo, dallo skyline di Milano stampato sulle enormi vetrate. Dove si distingue anche la Madonnina del Duomo.
Molte opere d’arte, come le gigantografie di pubblicità anni ‘80 di Jeff Koons, o la cappa per caminetto, la Testa di medusa di Lucio Fontana e pezzi storici di design, rendono la zona bar di una intimità elegantemente rétro. Dall’area miscelazione, dalla carta cocktail ispirata ai sette chakra, arrivano Suono - gin, ibisco, bergamotto, tio pepe sherry, ananas, ginger - e Terra - gin scozzese, mezcal, barbabietola, lavanda; tanta freschezza con un misurato coté alcolico a elettrizzare leggermente. Da spizzicare durante il sorseggio, pakora di legumi rossi e patate cosparso di paprica; vol-au-vent con salsa all'erborinato e albicocca, fagottino ripieno di spinaci e ricotta.
Il ristorante
Il ristorante, aperto nel 2018, è disposto su tutta la lunghezza della vetrata, lo stile evoca le atmosfere ultrasofisticate di quel capolavoro di estetica collettiva che è Playtime, film culto di Jacques Tati. Ancor più, il fascinoso spazio sopraelevato, occupato dagli arredi originali del Four Seasons Restaurant di New York progettato da Philip Johnson nel 1958, completato da alcuni elementi dell’installazione The Double Club di Carsten Höller. Per un totale di oltre ottanta coperti, più venti della terrazza triangolare da cui al tramonto si svela una Milano incredibilmente radiosa.
Una delle pareti è ricoperta di piatti d’artista, donati, fra gli altri, da Elmgreen & Dragset, Thomas Demand, Mariko Mori, sorta di piatti del Buon Ricordo “art edition”. Per chi invece ricerca un angolo totalmente privato, al piano superiore, la sala con terrazza dedicata allo chef table, con vista sulla cucina, una boiserie in velluto terra di Siena e una esclusiva serie di sedie cinesi ottocentesche di rara meraviglia.
Lo Chef
E in questo fantasmagorico meltin’ pot estetico si innesta il lavoro dello Chef Lorenzo Lunghi, trentasettenne fiorentino, alla conduzione della cucina di Torre da quattro anni e i precedenti impegnati a costruirsi un curriculum di gran valore. Iniziando giovanissimo con uno dei maestri che hanno fatto la storia dell’altra cucina italiana come Fulvio Pierangelini, proseguendo con il figlio Fulvietto al Bucaniere a San Vincenzo, Livorno, prima di partire per Parigi. Dove rimane ammaliato dall’estrosità di Iñaki Aizpitarte, pioniere della bistronomia francese, e lo affianca sia a Le Chateaubriand che a Le Dauphin. Finché non si ferma per cinque anni al Saturne dove ricopre il ruolo di sous chef di Sven Chartier.
È un bagaglio solido che Lunghi rielabora attraverso il filtro della sua personalità eclettica, ma soprattutto della sua spontaneità. Perché come per la poetica di Prada, anche lo Chef rifugge categoricamente la concezione più borghese, e a volte stantia, di alta cucina, nell’artificiosità ad esempio degli stuoli di amuse bouche, o della posa convulsa a suon di pinzette di fiori e miniature a decorazione dei piatti. A favore di una sostanza elegante, dove la tecnica si fonde con idee avvincenti e creatività spontanea. E senza voler assurgere al ruolo di teoreti dell’alta cucina, potremo affermare che la direzione da prendere di questi tempi è proprio questa. Diceva Dubuffet, padre dell'Art Brut, e qui torniamo alla questione iniziale di cos’è bello e cos’è brutto, che le espressioni artistiche spontanee, lontane dalle convenzioni e dai condizionamenti, sono dimostrazione di purezza estetica e bellissima semplicità.
La cucina
La cifra di Chef Lunghi si avvicina molto a questa definizione che si connette in modo congeniale alla filosofia di Prada. E si manifesta fin dall’inizio del menu con una tartelletta, composta di cipolle, zucchine trombetta, broccoli, pistacchio e una grattata di ricotta affumicata, che insieme a un pan brioche con battuta di vitello, maionese alla paprica e pepe rappresenta il benvenuto del percorso a mano libera dello Chef.
Concepito con grande senso etico e del recupero, per cui il pesce del giorno, il dentice, viene lavorato nella sua integrità e lo ritroviamo in tre piatti. Immerso in un consommé freddo, con noci fresche che punteggiano di amarognolo, e le ciliegie e i pomodori che addolciscono con qualche sprazzo acidulo. Da rimpolpare con un flatbread di patate ancor più impudico se intinto nel burro montato all’aglio orsino.
Insieme al pane di farina semintegrale e lievito madre arriva l’olio 100% Leccino proveniente dagli oliveti aretini della famiglia Bertelli. Gli asparagi bianchi, dal morso pieno, sono cotti alla brace, avvolti in un burro montato alla camomilla e golosamente rimpinguati da una salsa alla scamorza e cedro.
Il dentice, sempre crudo, si amalgama alla cremosità dei fagioli borlotti, con il lardo che aggiunge rotondità e comfort. Una delicatezza decisa quella della crema di finocchietto che condisce lo spago e guadagna in sapidità con bottarga e ricotta affumicata.
Sempre nell’ottica del recupero, il collare del dentice viene cotto in tegame di rame con gobbetti e sottaceti alla maremmana e così arriva al tavolo, da condividere in tutta la sua succulenza. Cottura primordiale per il piccione, passato alla brace insieme a una cipolla di Tropea e fico, con una quenelle di composta di yuzu a chiudere la scala dei toni dolci.
Il gelato alla verbena con yogurt e origano fa da trait d’union perfetto fra le portate salate e il dessert; una crema cotta allo yuzu, gelato al sesamo, sesamo soffiato, polline e honeycomb.
Contatti
La Torre Fondazione Prada
Indirizzo: Via Giovanni Lorenzini, 14, 20139 Milano MI
Telefono: 02 2332 3910