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Fatmata Binta: “Le cuoche africane? Sottovalutate, ma gli uomini imparano da loro”

di:
Alessandra Meldolesi
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copertina fatmata binta

La chef Fatmata Binta è tornata in Africa per riscoprire le sue origini. Oggi lotta per il riscatto dei Fulani attraverso un ristorante nomade e una fondazione. Il suo punto di vista? “Sono le donne i veri guardiani della tradizione, ma gli uomini le sottovalutano”.

La notizia

Ci sono persone che spostano le frontiere della gastronomia, al posto giusto sul confine ideale. Una di queste è sicuramente Fatmata Binta, premiata come Rising Star da The Best Chef Award 2021 e vincitrice del Basque Culinary World Prize 2022 . Nata a Freetown, in Sierra Leone, da una famiglia di Fulani, ama definirsi una “cheffe nomade moderna”, che gira il mondo servendo cene effimere con il suo ristorante Fulani Kitchen.

Crediti Yeswefood



I Fulani, la più grande tribù nomade africana, spostandosi hanno sviluppato una cultura gastronomica di adattamento e sopravvivenza, in grado di valorizzare i giacimenti di tutta l’Africa occidentale. “Sono nata in una tribù Fulani e l’ambiente in cui ho avuto la fortuna di crescere era meraviglioso”, racconta. “Sono cresciuta a stretto contatto con la natura, ho imparato l’importanza e la bellezza della condivisione e fin da piccola sono entrata in contatto con una cultura culinaria immensa e perfettamente sostenibile, che oggi voglio fare conoscere in tutto il mondo. Attraverso il mio lavoro, in effetti, voglio raccontare le storie dei Fulani, diffondere la loro cultura e fare in modo che non siano più considerati solo alla stregua di semplici pastori, ma anche come popolazione cui ispirarsi".


"Il loro senso della comunità e il loro stile di vita sono stati molto importanti per me, il mio sviluppo personale e professionale. È il motivo per cui da Fulani Kitchen invito le persone a vivere pienamente l’esperienza che propongo, lasciando le scarpe fuori, sedendo sopra stuoie stese per terra, condividendo il cibo con altri commensali e utilizzando le mani come posate. Propongo pasti composti per il 90% di cereali, radici, verdure e tutto quello che sarebbe comunemente considerato uno scarto o un ingrediente povero. Inoltre, il mio menu degustazione cambia ogni giorno perché, come le tribù variano alimentazione secondo il luogo dove si ferma la carovana, così io adatto i miei piatti secondo il luogo in cui cucino. È uno dei concetti base del nomadismo ed è per me fondamentale rispettarlo”.

Crediti The Best Chef



Anche la famiglia di Fatmata si spostava continuamente e ovunque si trovasse, fin da bambina le veniva chiesto di dare una mano a cucinare o fare la spesa, in modo che in futuro potesse provvedere a sé stessa. Lei però ha capito tardivamente di volerne fare un lavoro: prima c’è stata la laurea in relazioni internazionali, poi l’attività come animatrice televisiva e insegnante di inglese a Madrid. Ed è stato in Spagna che ha cominciato a cucinare per amici o in beneficenza. Decidendo al rientro in Africa di frequentare il Kenyan Culinary Institute di Nairobi e lavorare nella ristorazione. A un certo punto, tuttavia, l’inquietudine ha nuovamente prevalso. “Ho lasciato il mio lavoro e ho deciso di consacrarmi a conoscere meglio la mia cultura, per diffonderla in tutto il mondo. Ho trascorso alcuni mesi vivendo e cucinando presso diverse tribù di Fulani, in modo da documentarmi sulle loro ricette, e quando mi sono installata ad Accra, in Ghana, ho deciso di organizzare cene ispirate ai miei viaggi recenti e alle mie ultime scoperte. Così è nata Fulani Kitchen”.

Francis Kokoroko per The New York Times



“La sostenibilità per me non è una moda, ma una seconda natura. Quando è scoppiata la guerra in Sierra Leone, la mia famiglia è stata costretta a trasferirsi in Guinea, dove viveva mia nonna. Eravamo trecento e ci siamo stabiliti in un villaggio che poteva ospitarne la metà. I più grandi dovevano quindi trovare il modo di nutrire tutti al minimo prezzo. Andavamo nel bosco per raccogliere la legna e l’acqua nei ruscelli, parlavamo con il contadino, cucinavamo le frattaglie che la gente non voleva al mercato e coltivavamo il fonio, antico cereale dell’Africa occidentale noto per le proprietà nutritive e la capacità di crescere in condizioni estreme nell’arco di 6-8 settimane. Eravamo nella sostenibilità senza saperlo”. Ma nel paniere di Fatmata ci sono altri ingredienti autoctoni, come il miglio, il dawadawa, l’egousi e l’okra.


Dalla ricerca sulle proprie origini per Fatmata è arrivato a sorpresa il successo. “Sono molto grata ai Fulani e in particolare alle donne della mia tribù, autentiche guardiane delle tradizioni. Quando cerco un ingrediente o un’ispirazione, vado al mercato e ogni volta che parlo con loro, imparo qualcosa di nuovo, come gli innumerevoli benefici per la salute di alimenti di cui spesso ignoravo perfino l’esistenza. Penso sia importante dare loro la parola, facendole conoscere al mondo. La missione di Fatmata, oltre al ristorante, ha un secondo braccio: la fondazione Fulani, che supporta un villaggio culinario in Ghana, dove si tramandano le tradizioni etniche. Con il suo sostegno le donne possono coltivare e vendere il fonio, creando la propria impresa. Ma anche nelle cucine resta molto da fare. Gli uomini di questo settore sottovalutano le donne e dimenticano che sono le loro nonne, madri e sorelle a salvaguardare le tradizioni. Ci sono molte cuoche di successo nel panorama gastronomico africano, ma sfortunatamente non hanno la giusta visibilità sulla scena mondiale, forse per mancanza di collaborazione. Non dobbiamo essere competitive, insieme possiamo essere più forti e fare sapere al mondo quanto valiamo”.

Fonte: foodandsens.com

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Foto: Crediti Fulani Kitchen

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