Natali campani, incursioni francesi e un presente a Villa Zarri, in provincia di Bologna, dove ha creato uno dei gourmet più amati della zona: tra due argini come disciplina e tradizione, Agostino Iacobucci fa scorrere la sua cucina capace di emozionare oltre la tecnica.
Lo chef e il ristorante
Anche se hai mangiato una dozzina di piatti e chiacchierato a lungo con un chef, non cedere alla presunzione di aver esaurito tutto. Di essere sazio delle tue opinioni e di quelle che non sono altro che prime impressioni. Agostino Iacobucci, dopo aver storpiato il mio cognome, probabilmente sopraffatto da un ricordo d’infanzia, si è corretto e ha deciso di chiamarmi Lupin.
Se all’inizio poteva darmi fastidio, lasciando che prevalesse un muro di disagio o un’inutile (dis)fida verbale, non so neanche io come, forse sentendo la sua voce così simpaticamente campana, stranamente acuta e dal timbro infantile, è successo che il nomignolo me lo sono messo in tasca. Anzi, senza prenderlo troppo sul serio, me lo sono cucito addosso e anche sulla penna. Come Lupin infatti, credo che questo racconto, in fin dei conti, non sia nient’altro che un furto della sua arte culinaria. Scriverò come un ladro, spero anche un po’ gentiluomo.
Villa Zarri è un limbo. Senti ancora il fiato di Bologna sulle spalle e la campagna non è ancora cominciata. Il parcheggio è ampio. Un’apertura in una siepe segna il passaggio nell’altro mondo. Un giardino secolare, una villa del Cinquecento. Riscoprire i classici fa bene. Ti fa ricordare che se sei così intelligente, se sei arrivato a un certo punto, forse lo devi ai passi che qualcuno ha fatto prima di te. Iacobucci è un classico, almeno per Bologna. Ai Portici ha dato un segnale, evidentemente non compreso fino in fondo. Poi ha deciso di sospendersi da solo. Non sono puntini di sospensione, è un ritirarsi per riuscire a esprimersi meglio, per mettere qualche punto esclamativo.
Il padre di Agostino non gli ha mai fatto i complimenti. Eppure quando è mancato è quello che gli è mancato di più. Quello che gli ha insegnato ad avere fame anche quando accontentarsi sarebbe stata la cosa più giusta. Agostino non cerca la giustizia e nemmeno la giustezza, tra due argini come disciplina e tradizione fa scorrere la sua cucina. Tra Francia e Campania - Agostino è di Castellammare - tra retaggi scolastici e affondi in altre culture.
"Io rimango sulla grande tradizione rivisitata, dove si esalta il gusto e la materia prima. La tradizione va fatta rivivere con il supporto della ricerca e della nuove tecniche. Il ricordo di una volta va attualizzato. Le cucine in Italia sono ancora molto condizionate. Tanti colleghi sono ancora gelosi, stanno zitti, non dialogano con nessuno. Ma di cosa vi preoccupate? Il mondo è cambiato. Oggi è bello perché riesci a vedere tante cose contemporaneamente, la biodiversità italiana, la ricchezza del Perù, la forza delle tradizioni della Cina".
Nel corridoio che conduce alla sala. Prima di posare i piedi su pavimenti alla veneziana e farsi incoronare da lampadari di vetro di Murano. Prima di cedere al rigore di un servizio inamidato e percettivamente formale, c’è un triplo momento pop che Agostino adora sottolineare: mozzarella, scaramanzia e agrumi. Tre quadri in cui la mano di una donna grida la liberazione dello chef, nient’altro che la sua origine. Foto dai colori saturati che contraddicono palesemente la desaturazione dell’ambiente che ti aspetta. "Il livello più importante è l'umiltà, la cosa più bella tra amici e colleghi è dirsi se c’è qualcosa che non va, se c’è un errore. Il confronto serve a crescere, non farlo invece è sintomo di essere poco realistici e come un disco rotto di suonare solo per se stessi".
Agostino, in giro, vede poca voglia di dimostrare qualcosa a se stessi. Lui che a diciassette anni era già in Francia a sgobbare. Prima nelle cucine dove insegnavano a tenere le unghie pulite e a rispettare gli orari, poi in quella del Mirazur, da Mauro Colagreco che considera un fratello. È lì che ha capito che umiltà non significa che ti va bene tutto, che non dai fastidio a nessuno. Se qualcuno ti insegna qualcosa è perché ci crede. Cosa potrai fare se non trattare con rispetto quella persona? E subito dopo pensare che non tutto ti è dovuto.
"Sono entrato da stagista e sono uscito come uno di famiglia. Il Mirazur è tosto, eppure è fondante, ti entra dentro. Per me è stato quel passaggio della vita da non dare mai per scontato. Hai presente quando fai la dieta e poi, con leggerezza, sgarri con il panino e la cioccolata. Ecco, al Mirazur non puoi sgarrare, ci sono regole solidissime. Una volta che ci sei dentro, ti trascina e Mauro ti carica. Sono sacrifici ed emozioni". Sacrificio ed emozione. Oggi sempre di più il primo respinge la seconda. Non per Agostino, secondo cui se convivono arrivano anche più complimenti da parte degli altri.
La cucina
Una serie di dodici passaggi terminati con un monumento edibile: il Babà. L’emblema di una leggenda del territorio campano che attraversa il tempo e lo spazio, non perdendo mai la sua attualità e la sua forza. La lievitazione di un panetto che all’origine pesa solo 20 grammi, anche meno dell’anima, è tripla. Una nuvola che da vent’anni viaggia candida sopra la testa di Agostino, proteggendolo dalle insolazioni dei trend. La bagna è realizzata con undici essenze al rum, perfettamente integrata nell’alveolo. Un flash di lavanda, di erbe aromatiche. Ogni morso è un piccolo atto di forza e leggerezza. Potrebbe anche accompagnare solo, senza la chantilly, i frutti rossi e il doppio latte. Ducasse è venuto a spiarlo, Colagreco non si è scomodato nemmeno, a lui basta ordinarli.
Proseguendo a rebours, la fermata obbligata è Seppia, spuma d’aglio, olio all’n’duja e lime. Come in un museo, quando davanti alle opere dei grandi artisti c’è il divanetto contemplativo. Sedetevi lì, e questo piatto mangiatevelo anche con gli occhi. Una tela di spuma d’aglio racchiude un ragù di seppia oltre il concettuale. Spruzzate di polvere lime, nero di seppia e lingue di olio “calabro”. Un piatto per tutte le ore del giorno, dal cappuccino salato, all’aglio e olio di mezzanotte. Che qualcuno rubi la ricetta e ne faccia uno street (art) food.
La seconda folgorazione, masterpiece se volete, è la Carota in giardiniera, un piatto total vegetale che per profondità pare un piatto di carne di maiale a lunga cottura. Una memoria dal sottosuolo, in cui la scontata radice arancione, tornata in voga più per Sinner che per le sue qualità, è un essere multiforme: un velo creato con la sua acqua è una crepe farcita di un cremoso di quattro diverse tipologie di carote profumate allo zenzero, poi una versione cruda con il polline e, su un piattino a parte, la carota in 3D, la parte giocosa, quasi fosse un croissant. Per contrastare la dolcezza, una spuma di giardiniera che, fosse per noi, avremmo messo come farcia anche della carota tridimensionale.
Le carote sono tutte coltivate nell’orto situato nel giardino. Un orto alimentato da letame di cavallo - più completo dice lo chef - e che riposa quattro mesi all’anno. Agostino fa poca strada per coglierle, il suo piatto ne farà tanta e raccoglierà anche di più. Poteva essere una scelta vegetale per far piacere a una nicchia, non è altro che una pennellata geniale in cui, tra gli strati di colore, leggiamo il ruolo da mentore di chef Colagreco. Ve lo immaginate un piatto così al Mirazur? Quattro sì. Anguilla di Comacchio, pinoli, agrumi, misticanza al gin e sapori orientali chiude la nostra collezione di piatti memorabili. Solitamente l’anguilla viene servita dopo la metà di un menù. Qui è un antipasto. Un boccone fresco e leggero, saturo del gusto dello sgusciante pesce eppure senza quella sensazione di masticare il grasso.
L’anguilla è cotta a testa in giù sui carboni, in modo da far colare tutto il grasso. Viene nappata dolcemente in modo che rimanga umida. Il condimento è un blend tra italia e oriente. Un mix di stili che affigge il piatto nella galleria della freschezza. Agostino Iacobucci è un uomo che riesce ancora a commuoversi e a farti commuovere, per il suo lavoro e con il suo lavoro.
Un uomo prezioso che conserva il vecchio stile, che rimane fedele alla scuola francese, senza sciovinizzare sulle altre culture. Anzi, studiandole ne diventa integratore. Migliorando anche l’integralità della sua tradizione. Se mai riuscissi a rubargli una lacrima, avrebbe il sapore di agrumi e mozzarella.
Contatti
Villa Zarri- Ristorante Iacobucci
Via Ronco, 1, 40013 Castel Maggiore BO
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