Nel rinnovato Boscareto Resort di Serralunga d’Alba Michelangelo Mammoliti va oltre le conferme: il suo è un grande stile, che apre spiragli abbaglianti sul futuro della cucina italiana.
Lo chef
Ce lo ricordavamo diverso, Michelangelo Mammoliti, ai tempi già belli della Madernassa. Uno chef perfezionista fino al limite del manierismo, per il quale il confronto con il vicino Enrico Crippa, apostolo del vegetale, era ineludibile, fortissimo nella tecnica e nell’estetica, rifinito nel gusto, compiacente per morbidezze e per dolcezze. Lo ritroviamo più maturo, ma paradossalmente assai più giovane, nel rinnovato Boscareto Resort di Serralunga d’Alba, dove l’ambizione ruggisce ancor più forte e sembra travolgere ogni ostacolo.
Lo chef trentottenne ne è consapevole per primo. Certo non ha trascorso invano quasi otto anni in Francia, un paio con Ducasse, a Parigi e in Provenza all’Abbaye de la Celle, e quasi 6 con il suo mentore Yannick Alléno, più un’apertura per sua maestà Pierre Gagnaire. Fondamenta forti, che gli infondono la sicurezza necessaria per una disobbedienza ragionata e a tratti letale.
“Ognuno a un certo punto prende la sua strada”, confida. “Attualmente mi sento più me stesso di quanto non accadesse in passato. Perché ho portato avanti le mie riflessioni su alcuni punti dirimenti: la materia prima, innanzitutto vegetale, con il lavoro sull’orto; e l’importanza del gusto rispetto all’estetica. Arrivando qui ho ripreso i piatti che facevamo negli ultimi anni alla Madernassa e mi sono reso conto che a volte erano molto belli, ma sarebbero stati più buoni mettendo da parte l’estetica. Prendiamo una sogliola alla mugnaia: può non essere particolarmente attraente, ma hai il prodotto, l’acidità, il pensiero. È un piatto bomba, come quelli che voglio mangiare quando vado al ristorante. Prima ero un altro Michelangelo”.
Il ristorante
La famiglia Dogliani ha messo ogni mezzo al servizio di questa metamorfosi e le stelle sono piovute a coppia, come capita di rado, su La Rei Natura, la natura della cosa, la natura è regina. C’è la serra appena sotto il resort, in una terra strappata alle vigne che vale come l’oro, dove lo chef si aggira in cerca di aromatiche e per controllare le esili piantine pronte al travaso; e ci sono un orto e altre due serre nelle vicinanze, fra cui fervono i traffici.
In tutto sono 128 varietà di pomodoro e almeno 6 tipi per ogni ortaggio di stagione, coltivati come usavano il nonno, il padre e un po’ anche monsieur Jean-Baptiste, contadino di Alain Ducasse, perché si impara tanto dagli anziani. “Oggi scelgo le mie varietà selezionando il seme, in modo da avere le mie bombe l’anno prossimo. Poi le servo come dico io, magari in papillote con i fiori e la loro salsa. Non faccio più le peripezie”.
Ed è vero che ora l’impiattato più che esprimersi spontaneamente, rasenta il brutalismo, quale mero veicolo di gusti diretti e a tratti folgoranti. Quasi che l’italianità avesse finito per scalzare o quanto meno scrostare la patina del classicismo d’oltralpe, elidendo ogni remora. Succede nel percorso dedicato alla memoria, intesa in chiave di neurogastronomia alla Gordon Shepherd, che forzatamente attinge dal repertorio dei gusti popolari e schietti dell’entroterra calabrese; ma non va diversamente nel degustazione dedicato al viaggio, anch’esso riscritto dal ricordo, e nel carta bianca MAD 100% Natura, interamente vegetale e spesso innervato di composizioni improvvisate.
Giacché la serra è il luogo dove germogliano i semi raccolti vagando per il mondo, accanto alle memorie di casa. Perfetta conduttrice dell’energia della cucina è poi una sala giovanissima, itinerante per il ristorante nelle varie fasi del pasto, dove risalta il sommelier Alessandro Tupputi, complice di lunga data alla Madernassa, che qui sfodera il metodo irriverente dell’abbinamento al contrario.
In pratica ha selezionato una rosa di vini dolci, ma sapidi per la vicinanza al mare o il particolare terreno, oppure da uve aromatiche solitamente vinificate passite, qui in versione secca, che abbina in modo originale alla cucina, facendo leva sull’eterogeusia, ovvero sulla discrepanza fra aspettative e sensazioni, di nuovo in chiave di neurogastronomia. Perché se è vero che una volta era cliché sorseggiare Sauternes col foie gras, oggi quei nettari sono confinati al dessert o direttamente obliterati.
I piatti
Gli appetizer danno subito la misura del pasto, per esempio la deliziosa carota essiccata e reidratata nel suo succo, secondo una tecnica ricorrente. Si ispira al sugo che la mamma preparava con i pomodori congelati in casa, che fuori dal freezer perdevano l’acqua e quindi trasmettevano più sapore. Il principio della crioconcentrazione ante litteram nella memoria dimenticata di una cucina italiana.
Ma è già una bomba, per usare la terminologia dello chef, Centallo, piatto dedicato alla patria piemontese dei legumi. Viene introdotto presentando le piantine dei fagioli presenti, coltivati l’anno scorso nell’orto: borlotti, cannellini, barba di frate e del diavolo. Più una salsa profonda di calamari arrostiti alla griglia in estrazione, nero di seppia, estratto di levistico, seppia marinata nel garum di calamaro preparato 18 mesi prima (“perché come diceva Brillat-Savarin, bisogna sapere aspettare”) e lardo di seppia, questa volta in funzione letterale. Il tutto per ritrarre coi pennelli del tempo artista di Proust l’emozione dell’insalata di cannellini, calamari e cipolla che si mangiava in casa Mammoliti.
Oppure Santena, toponimo degli asparagi, cotti in estrazione di prosciutto di Cuneo, arrostiti alla brace e serviti con salsa di asparagi arrostiti, cacio e pepe, glassa di kiwi e kiwi disidratato e reidratato nel suo succo. Di nuovo sulle orme della nonna, che serviva il prosciutto col frutto e gli asparagi avvolti nel salume. “La polaroid di qualcosa che ho vissuto. Uno schiaffo in faccia”.
Sempre nel menu Emozione, sul raviolo di coniglio grigio di Carmagnola alla ligure, servito con pralinato di pinoli, olio alla maggiorana e zabaione alla salamoia di olive taggiasche, Tupputi sfodera il suo abbinamento irriverente: un Moscato Batasiolo 2017, contro tutti i paletti, per riscattare la versatilità della tipologia.
Dal percorso Voyage arriva Bangkok, equilibratissimo scampo con salsa di curry verde alla tailandese, nespola o albicocca secondo la stagione; ma ci sono anche l’agnello cotto nell’argilla dissotterrata sotto la serra, modello barbacoa messicano, il raviolo di falafel o il dumpling con dashi di prosciutto di Cuneo e farcia di maiale in agrodolce, per un match fra Piemonte e resto del mondo.
Mentre al momento il lavoro ferve sulla pasta gelatinosa di farina di riso e tapioca farcita alla vietnamita con maiale e gamberetti. Dove per lo chef le cucine orientali, e nella fattispecie quella tailandese, rappresentano un paradigma di gusto, che assomma acidità, piccante, umami, tutto nello stesso boccone.
Il vegetale è talvolta protagonista (vedi la scarola con uvetta al vadouvan, ricci di mare e farcia di aglio orsino, passata sulla griglia per il fumé e un ricordo di insalata ripassata, più pralinato ai pinoli e gel di peperone crusco, panitaliana con nuance asiatiche), talaltra invisibile.
Succede nella focaccia spennellata di olio di mélilot, tenuto in serbo per un anno in frigo, e impastata del suo infuso o nel pane ai fiori di sambuco, che rincorre un ricordo di Calabria. Chiude il dessert di fragole dell’orto, bianche, nature, fermentate, marinate con spezie, erbe e all’umeboshi, essiccate e reidratate nuovamente nel loro succo. E i 128 pomodori? Con un blend lo chef ricava un’acqua cruda da bere, dove impiega foglie, oli e infusi, mentre dalla pianta arrivano le fibre per la carta che illustra il piatto.
Contatti
La Rei Natura
Via Roddino, 21, 12050 Serralunga d'Alba CN
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