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Yapa, “vera cucina fusion” oltre le mode: a Milano i piatti che osano di Matteo Pancetti

di:
Martino Lapini
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Matteo Pancetti non cerca l’equilibrio, cerca il gusto: per esporre una cultura devi essere diretto, non puoi coprirla, affinarla troppo o, lungi da lui, europeizzare. Il vero fusion di Yapa a Milano.

La storia

Prima della corrente del nord, la rivoluzione spagnola. Matteo Pancetti era lì, nelle cucine dove l’aurea di Ferran Adrià sussurrava inni sconci, suggeriva scandali. Formazione scolastica in Francia, poi Barcellona. Dieci anni di crudo pionierismo, l’unica regola quella che non ci sono regole. Sergi Arola a guidare la nave. Nave in cui Matteo è stato mozzo e vedetta, sottufficiale e cannoniere.

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A volte un veliero, a volte un offshore, a volte una bagnarola. Mi sento spagnolo, ci dice. È la realidad. Questa parola gli sfugge più di una volta. Non sa dirla in italiano. Ne escono altre in spagnolo. Non mente. Matteo diventa capitano a sua volta, la flotta di Arola si allarga. Prendi il timone, conduci le mie navi a Hong Kong, Dubai, Brasile, Cile. La crociata del fermento dura dieci anni, il vangelo di Arola diventa anche la sua parola. Ovunque si trovi non può fare a meno di frequentare i bar, le bettole, i mercati. Lì c’è qualcosa in più, lì c’è già Yapa.

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"La mia cucina è la somma dei miei viaggi, c’è poco da dire. Racconta di quei viaggi, è intrisa di quei viaggi. Quando viaggiavamo mia moglie mi chiedeva perché come prima tappa andavamo sempre al mercato. Perché è lì che trovi l’anima del luogo in cui ti trovi. Da Yapa non nascondiamo niente, nemmeno gli errori, l’approccio con il cliente è diretto, senza filtri". Yapa in lingua quechua è “quel qualcosa in più che il venditore intende regalare”. Succede nei mercati, può succedere tra chi si guarda disinteressato. A chi non si vergogna della propria cultura. 

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Yapa in fondo sembra un mercato. Il banco scorre lungo tutto il volume del locale. Una striscia che poi diventa una U spezzata a cui appoggiarsi o attraverso cui interagire. Il bar, le piastre, il wok, la griglia. Tutto in linea. Anche la brigata. Puoi vedere tutto, puoi sentire tutto. Per il resto il locale è di quel minimal chic perfetto per Milano, palette colori che sa di nuance del legno e della pietra pallida. Di foglie di mais essiccate. Esotismo accennato, per niente carnevalesco. Il mercato delle voci è sovrastato e tanto solo dalla playlist, questa sì troppo carnevalesca. Peccato. 

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Matteo Pancetti ha vissuto gran parte della sua vita adulta a tante ore di aereo dalla sua famiglia. Lui che è della provincia di Massa Carrara. Dal Sud America, il viaggio lo porta a Berlino. Poi la telefonata. Il viaggio della vita di sua padre potrebbe interrompersi. Il nomade deve fare ritorno. Smettere di viaggiare da solo, ricomincia a viaggiare con un altro. Entra nella roulette dei private chef. C’è un’occasione presso una famiglia turca, Matteo non è convinto. La stessa occasione arriva con una famiglia italiana che cerca uno chef dalla mano internazionale. Sono in tre a fare la prova. Matteo viene scelto.

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Entra in casa di Remo Ruffini, l’imperatore Moncler. Le cene di famiglia e le cene di famiglia allargata. La famiglia Ruffini lo tiene per sé e lo offre al proprio cerchio di amici e di rubrica. In villa, in barca, in montagna. Gli chiedono di fondere la sua cultura culinaria con il contesto, con il party, con l’estroversismo. Engadiner around the world, Sette mari nel Mediterreneo. Noi mettiamo il titolo, tu metti i piatti. Facci viaggiare, without moving. Dieci persone, trenta persone, ottanta persone. I coperti non contano, l’impatto sì. “Per tre anni ho lavorato per loro come chef privato. Sono diventato parte della famiglia, non mi hanno mai trattato come un lavoratore dipendente. Soprautto i figli Pietro e Romeo. Remo, il padre, è una persona visionaria e io sono stato fortunato a incontrarlo. Forse ha visto qualcosa in me che anche io non vedevo. Remo è una persona diretta, fredda al primo impatto, uno che in qualche modo ti mette sempre alla prova. Non ti dirà mia sei bravo, hai fatto bene. La vita mi ha dato uno shock tremendo con mio padre. Subito dopo mi ha dato un grande incontro. E io sono riuscito a consegnare a loro il mio messaggio”.

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Il padre di Matteo si stabilizza. Lui allora può tornare a scegliere il contrario. Riapre il suo sogno, scritto e alimentato parola per parola in un quaderno di viaggio. Lì c’è scritto tutto. La reliquia. Per tre anni la sua forma espressiva è stata consumata dagli spiriti fortunati, dal jet set, dalla creme, da chi ha ereditato, fatto fruttare e fatturare, dalla Milano bene e da quella meglio, dalla Milano e oltre, che Milano-Cortina is nothing. Perché allora non aprirsi a tutti? Nel 2019 inaugura Nuna assieme al suo storico amico Giuseppe Di Maio. Torna la tensione del ristorante, il nervosismo del servizio. Anche quello dei Ruffini che non lo appoggiano. Sacrificio enorme, personale pochissimo, Matteo spesso dorme al ristorante. Basta poco più di un anno per fare il boom, per essere la next big thing della piccola mela italiana. Nuna ti scordare di me.

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"Molti amici di Pietro e Romeo vengono a trovarmi e ritornano. Inizia il passa parola. Quando si parlavano tra loro, tutti gli dicevano che venivano qui. Milano iniziava a dare feedback. Durante il covid Remo mi ha chiamato e mi ha detto che erano interessati. Mi ha detto che erano pronti per me. Non me l’hanno detto esplicitamente, ma io sapevo che loro avevano visto quello che avevo realizzato". Yapa nasce dopo il covid, sui diari di Matteo e su un pizzico di piuma d’oca. È un ristorante fusion perché Milano è fusion. La più fusion. Immigrazione e opportunità sono i due fattori che creano il terreno fertile per la sovrapposizione di culture. Matteo viaggia secondo i nodi della sua esperienza. Ti porta in Spagna e in Messico, in Thailandia e in Cile. Sempre con l’Italia nel cuore. Questi paesi te li tira in faccia, sei lì appena dietro il bancone e non li puoi schivare.

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I piatti

Matteo non cerca l’equilibrio, cerca il gusto. Per esporre una cultura devi essere diretto, non puoi coprirla, affinarla troppo o, lungi da lui, europeizzare. Fusion fino ad ora è qualcosa che si è adattato al palato europeo, qualcosa di smorzato a priori. Per questo Matteo è un nerd del prodotto, della materia prima. I suoi fornitori sono i pilastri, persone a cui ha raccontato il progetto e che sono riusciti a dargli la yapa, “quel qualcosa in più”.

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"Da più di cinque anni lavoro con All’Ortolano dei fratelli Foglia, icona della verdura per Milano, sono stra-appasionati del prodotto. I fornitori sono la prima cosa per un ristorante, non vanno dati per scontati. Perché il fornitore è la materia prima. Da tanto dialogo anche con Pietro Daniotti, che ha la sua azienda agricola vicino a Pavia. Tre anni fa non aveva il cress. Io uso molto basilico thai ed essendo lui un ricercatore di semi, l’ha procurato e lo coltiva per me. Abbiamo il coriandolo germogliato, meno invasivo per il “palato” italiano. Il coriandolo è un gusto che noi italiani non abbiamo registrato mentalmente, non abbiamo avuto il trauma da piccoli, quindi ci “fastidia”". Non ci ha infastidito per niente la Ceviche Yapa, che si discosta molto dalla classca ceviche che ha tanta quantità di liquido e mais tostato.

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Pancetti la fa solo con ricciola, patata dolce affumicata, purè di tamarindo, germoglio di coriandolo, mix di jalapeno verde e rosso e ay amarillo del Perù, con leche de tigre ricavato dagli scarti della ricciola. Chips di mais azzurro, giallo e platano macho ad accompagnare. La texture della ceviche è splendida, la freschezza esplosiva. Le chips smorzano il taglio acido e pungente, con note tostate e dolciastre. Prima di questa icona sudamericana, un piatto di quelli che ti folgorano. La semplicità è l’arma più letale, non ci puoi fare niente. Arriva e sei spacciato. Pan tomate e jamon de tuna lo mangeresti a sfare.

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Proviene dalla strada e dai ricordi. Dalle calle spagnole in cui il profumo del patanegra si mischia a quello del pan tomate. Matteo usa la lingua di Davide Longoni, quando l’ha assaggiata gli ha ricordato immediatamente il pan cristal spagnolo. Era fatta. Prosciutto di ventresca al posto del patanegra. Infiltrazione grassa consistente, la tagliano a cubi e la abbattono, poi fettine sottilissime come per lo jamon. Condito con sale affumicato, scorza di limone, cappero e le sue foglie e olio affumicato alle erbe mediterranee. Il racconto del Taco di Carnita inizia da una coppia di messicani stabilitasi a Madrid. Matteo si rifornisce da loro che hanno importato mais messicano coltivandolo secondo un procedimento tradizionale che conferisce alla farina poca dolcezza e note affumicate.

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La carnita è maialino piacentino cotto a bassa temperatura per 24 ore con diversi aromi: arancio, foglie di banano, sale e pepe. Viene sfilacciato e al momento del servizio fatto croccare in piastra assieme alla tortilla. Base di salsa verde con avocado, germoglio di coriandolo, jalapeno e cipolla. Sopra la carne ancora cipolla, questa volta rossa e marinata con jalapeno, aceto e origano. Morsi acidi e sapidi, morsi di strada, morsi gaudenti e sopra le righe. Per Matteo ora c’è la miglior brigata che Yapa abbia mai avuto.

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Ragazzi che si stanno avvicinando alla sua cultura, che desideravano aprirsi a una nuova cultura. Hanno retto l’impatto di essere tutti dei jolly, nel senso che tutti devono saper fare tutto. Andrea arriva da tre anni di Bottura, Luca e Nicola da Aprea, l’altro Luca dalle cucine di Da Vittorio. Per andare in barca devi sapere far tutto, per navigare è necessaria simbiosi. Di fronte a ogni prova. Non è un equipo è un equipaggio. Il Moscardino arriva dalle barche nello Ionio da cui Matteo si rifornisce. Dal mare alla griglia, sbam, diretto senza nessun tipo di affinamento, pieno di umori. Il mare che ti sveglia, il salmastro che ti scuote. Solo una purea di aglio nero, miso e succo d’arancia e olio al prezzemolo a finire. Il piatto del mercato, strillato e pronto. In qualsiasi mercato succede così, non conta la latitudine, conta la performance live.

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Menzione speciale per un altro ricordo spagnolo, un piatto della mente e dell’anima ci racconta Matteo. Qualcosa di cui noi ignoravamo l’esistenza. La Cecina. L’antefatto è la Cecina de Leon - si pronuncia sesina - un tesoro gastronomico secolare che prevede salatura, affumicatura e asciugatura di tagli di carne di mucca. Matteo ha preso una picanha dell’azienda portoghese Jacinto - una delle migliori al mondo - l’ha lasciata due giorni sotto sale, poi l’ha “panata” di erbe e spezie e lasciata essiccare tre mesi in cella. Un prosciutto di vacca in cui il grasso sferza invece di avvolgere. In cui la carne esprime tutta la sua profondità, fermandosi appena prima del rancido, al punto di non ritorno. Ogni sottile fettina è superfood.

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Matteo ha due compagni di viaggio che rendono Yapa meta esperienziale anche nelle stive del beverage. Matias Sarli e Alfonso Bonvini."Matias lo conosco da prima di mia moglie. Dopo i servizi da Arola si andava a bere insieme, un gran gin tonic o una birra fresca. Matias lavorava in uno speakeasy. Tutti andavamo lì. Diventiamo amici. Un giorno mi dice che voleva venire a lavorare in cucina con me. Io ero preoccupato - ero il secondo di Sergi a quel tempo - il livello è altissimo gli dico e non verrai pagato. Sei un barman non un cuoco. Lui insiste ed entra in cucina, per capire a fondo le materie prime e i sapori. Siamo insieme da vent’anni, le nostre culture sono fuse insieme. Impariamo l’uno dall’altro, lui è uno dei pochi che sa come trasformare un ingrediente in un cocktail".

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Matias fa all in con noi. Abbina cocktail a tutti i nostri piatti. Sono quasi tutti gastronomici, si masticano. Ci senti le materie prime, non sono un accompagnamento. Sono un layer esplosivo, qualcosa che non va mai per il sottile. Proprio come la cucina di Matteo. Alfonso Bonvini è con Matteo dai tempi di Nuna. Un grande ricercatore oltre che un sommelier profondo e curioso. Sono i malbec sudamericani la fissazione del momento, non fine a se stessa. L’obiettivo è quello di trovare vitigni e vini abbinabili a culture diverse da quelle del mero territorio di provenienza. Alfonso e Matteo stanno lavorando anche con un piccola realtà appena fuori dalla Franciacorta che - dicono - non ha niente da invidiare a una produzione di grandi Champagne.

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L’ultimo colpo di coda di Matteo non è la prossima destinazione. Ci piace pensarlo come un viaggio oltre la dimensione ristorativa conosciuta. Una matematica diversa, riassunta dal numero 12. Così si chiama il progetto che sogna. Dodici seggiole al bancone, dodici bottiglie di vino che ruotano, Dodici piatti. Un tredicesimo elemento arriverebbe ogni tanto come ospite. Un mercato nuovo. Meno denso, ma non meno potente.

Contatti

Yapa Restaurant

Viale Monte Nero, 34, 20135 Milano MI

T. 349 127 4217

Sito web

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