“Umbria on fire”: da quando la Michelin ha acceso i riflettori sulla piccola regione centritaliana, è tutto un fiorire di nuovi esercizi di stile. Come Coro, ristorante d’albergo nel meraviglioso Palazzo Petrus, dove lo chef Ronald Bukri e il direttore Francesco Perali portano avanti le loro giovani idee.
Il ristorante
Bellissima Orvieto, già trabocca di turisti da tutto il mondo, anglosassoni ma anche asiatici esigenti. Mancava una struttura ricettiva per accoglierli. Finché non ha aperto Palazzo Petrus, albergo da 9 suite ospitato in un antico palazzo patrizio del centro cittadino, rimaneggiato con genio architettonico. La ristorazione non poteva essere da meno ed è per questo che la proprietà ha chiamato due giovani talenti: Ronald Bukri e Francesco Perali, rispettivamente in cucina e in sala. Affiatatissimi.
Il loro ristorante Coro (che inanella le ultime lettere di un nome con le prime dell’altro, per una coralità anche semantica) non è meno suggestivo della struttura, quale fiancata la facciata di San Giuseppe, chiesa sconsacrata andata distrutta e poi ricostruita, che si apprezza compiutamente salendo le scale della cantina verticale. Un’atmosfera unica in una location pazzesca, che i due non potevano lasciarsi sfuggire.
Nato in Albania, Bukri è arrivato a Empoli con la famiglia quando aveva 6 anni. “Allora un po’ per necessità, visto che i miei lavoravano, ho iniziato a cucinare e mi è piaciuto così tanto, che mi sono iscritto all’alberghiero. Nel frattempo lavoravo nel fine settimana e facevo qualche stagione estiva. Da toscano ho sentito parlare di Arnolfo e ho trascorso un inverno da lui, poi visto che cercavano da Schöneck, mi sono spostato per l’estate. Avevo mandato un curriculum a Paolo Lopriore e lui mi ha richiamato. Alla Certosa di Maggiano ho compiuto l’esperienza per me più significativa, quando in brigata c’era Gorini.
Mi sono fermato un anno, poi ne ho trascorsi due alla Collegiata di San Gimignano, ho fatto un breve passaggio da Sketch a Londra e sono partito per Sidney, dove ho lavorato da Guillaume at Bennelong, con Guillaume Brahimi, ex chef di Robuchon, dentro l’Opera di Sidney. In brigata eravamo 27, ho superato la prova e in tre mesi ero junior sous-chef. Ricordo una metropoli stimolante, dove trovavo di tutto; sotto casa mia c’era perfino una focacceria genovese, ma io ero stregato dalle cucine asiatiche”.
Dopo un anno, tuttavia, il richiamo dell’Italia prevale e quando chiama Igles Corelli per Atman, Bukri dice sì. Terry Giacomello poi cerca un secondo e lui si sposta a Parma, per colmare la lacuna della cucina bulliana. “Sono rimasto due anni e ho appreso tante tecniche, ma le idee erano sue. Io mi sforzavo di metterle in pratica”. Il desiderio di fare qualcosa di proprio tuttavia cresce e si concretizza all’Osticcio di Montalcino, dove ritrova Francesco Perali, conosciuto ad Atman.
Il ristorante inizia a farsi notare, ma non regge l’urto del covid. “Io e Francesco però ci siamo promessi di proseguire insieme il nostro cammino”. Ed è così che quando il maître, orvietano di nascita, riceve dalla proprietà di Palazzo Petrus, habitué di Osticcio, la proposta di essere della partita, subito la allarga a Bukri. “Cercavano giovani affidabili e appassionati, a me è bastato vedere la chiesa e il progetto. Ho aspettato due anni che finissero lavori e restauri, facendo consulenze e cene private, ma anche visitando produttori; poi lo scorso 23 dicembre finalmente abbiamo inaugurato”.
Il ristorante è raccolto: sono meno di 30 coperti, con doppio ingresso dall’hotel e dalla strada; poi ci sono le colazioni, il servizio in camera, il bistrot Gocce, che apre solo in alta stagione, e il cocktail bar. Oltre alla carta, con 4 opzioni per categoria, figurano 3 menu degustazione: Coro Ardente, composto di 4 corse alla brace (il cui strumento, su modello scandinavo e non basco, è stato disegnato da Bukri); Coro Armonico, che ne conta 6; Coro Libero da 10. Tutti al buio, al prezzo rispettivamente di 72, 88 e 110 euro.
La sala è nelle mani di Perali, che era rimasto ad Atman fino all’addio di Corelli. “Ma a Bukri mi legano sentimenti di amicizia e affinità. Ci accomunano l’immediatezza e l’autenticità di gesti e sapori, in senso trasversale. Avevamo considerato diverse ipotesi per ritrovarci, fino all’occasione apertasi a Orvieto, che ho sempre pensato meritasse un locale di livello. Ed era un progetto allettante, per la bellezza e per le condizioni. Il territorio si è un po’ arroccato, ma andrebbe riscoperto anche come terroir per il vino”. Lo segue in cantina Valentina de Angelis, sommelier romana appassionatissima di Borgogna, la cui carta in progress è ispirata al principio della pulizia di beva, oltre il naturale e il convenzionale; focus ovviamente su Orvieto e sulla sua identità, ma dal 2018 in giù, per evidenziale la longevità potenziale della denominazione.
La cucina, allora. “A 36 anni mi sento più maturo e meno dimostrativo del passato”, attacca Bukri. “So che un pubblico d’albergo non è necessariamente interessato all’ego dello chef. E ho la fortuna di operare in un territorio, che condivide tante materie con la bassa Toscana. Certo nella mia memoria gustativa resta l’imprinting dei piatti albanesi, che cucinava mia madre, bravissima sui fermentati, pur non sapendo cosa siano. Ricordo che feci assaggiare a Corelli i turshi, melanzane ai friggitelli fermentate, e lui volle subito chiamarla per la ricetta”.
I piatti
Da Osticcio è sopravvissuto qualche signature. Per esempio il gambero rosso, servito crudo con emulsione di limone verde, olio e miele amaro di aneto, fragilissima perché priva di proteine, una manciata di erbe amare, capperi per il profumo e un velo di scalogno per la profondità e la persistenza. “Un antipasto fresco, giocato sugli equilibri”.
Ma c’è anche il carciofo, vagamente “romitiano”: dalle foglie esterne si ricava un’estrazione molto amara, dai gambi un estratto crudo, mentre altre foglie alla brace vengono infusionate nell’olio, dove cuoce confit il capolino, poi finito alla brace e servito con l’uvetta macerata al Varnelli, per spingere il balsamico, e un gioco di erbe spontanee. Un altro signature è lo spaghetto Gerardo Di Nola, condito con un’emulsione di burro d’alpeggio e Parmigiano 36 mesi (da forme intere del caseificio), più poco limone perché un agrume non manca mai. Sopra altro Parmigiano, spolverizzato sul piatto, viene rifinito con scorza di limone verde e paprica affumicata, che porta complessità, ma viene rintuzzata dal citrino.
La pancia di pecora marinata 2 giorni e cotta 36 ore viene accompagnata dal calamaro passato alla brace qualche secondo, per ingentilire la carne con note di dolcezza tostata, e una salsa pacossata delle sue interiora. Il dessert Miele è un altro hit. “Perché io nasco pasticciere”. Quindi la crema leggera al miele floreale, tipo girasole, con l’aggiunta di albumi semimontati, i finger lime macerati sottovuoto, polline fresco e cialda ad alveare.
Contatti
Coro
Via dei Gualtieri 1
Telefono +39 0763 967 231
Email info@cororistorante.it