Il grande chef, oggi sessantottenne, si è formato nei grandi ristoranti francesi, prima di cercare fortuna oltreoceano. Oggi è a capo di un impero intercontinentale composto da 21 locali, sui quali non tramonta mai il sole. L’ultimo è la brasserie di Dubai, sotto il segno dell’“adattabilità”.
L'intervista
Era un bambino felice, Daniel Boulud, nella fattoria dei genitori, fra anatre e caprette, in mezzo a ogni possibile vegetale. Con la nonna cagliava il formaggio e accompagnava il padre ogni sabato al mercato, da erede designato. Ma la vita in campagna era troppo solitaria per lui: meglio la cucina. Fra i suoi maestri, dalle parti di Lione e non solo, gli stellatissimi Gerard Nandron, Georges Blanc, Roger Vergé, Michel Guérard. “Quando ho iniziato, i giorni e le notti erano lunghi; le cucine somigliavano a caserme. Ma oggi le mie squadre sono il cuore di quello che faccio”, rivendica ai microfoni di gaultmillauae.com.
Poi ci sono stati il passaggio a Copenaghen e il lavoro quale chef privato per la Commissione Europea a Washington. “Ma è stata New York a cambiare tutto, le esperienze al Lutéce e a Le Cirque. La mia figlia maggiore ci è nata nel 1989, ma le cose all’epoca non erano facili. Volevo tornare in Francia e aprire un ristorante a Lione, ma non ho trovato i fondi. Mentre in America avevo appena pubblicato un libro e il mio nome era in ascesa. Entro il 1992 avevo raccolto i soldi e firmato il contratto”.
Aperto nel 1993, si può ben dire che il ristorante Daniel, oggi orbato di una stella, abbia fatto la storia della cucina americana. Ma Boulud non si è fermato. Oggi guida 21 stabilimenti, impresa non facile, specie sotto il profilo del talent scouting. “Non è un affare banale. I nomi possono restare, ma l’evoluzione è continua. Ho le persone giuste sul posto, per essere sicuro di non mancare le nomine corrette e che le brigate filino lisce. Sebbene viaggi molto, se c’è un nuovo chef, gli dedicherò molto tempo per essere sicuro che possiamo lavorare insieme, senza dover restare in contatto tutto il tempo”.
“Non bisognerebbe mai lasciarsi scoraggiare dai rischi nella vita”, prosegue Boulud, che ha aperto ma anche chiuso ristoranti, come quello di Pechino, inaugurato per le Olimpiadi e durato un lustro, a causa del calo di energia e delle difficoltà di approvvigionamento. “Quando la qualità è scesa, è stato difficile continuare. E per quanto sia bene rischiare, non potevamo mettere a repentaglio la nostra reputazione”.
“Cerchiamo di non ripeterci, non è mai una formula vincente. Conserviamo la nostra identità e si tratta sempre di passione per i migliori ingredienti. Sono un cuoco francese, quindi a Dubai, per esempio, ci sono ancora le rillettes di anatra e la bistecca di champignon in carta. Anche il burger, con le patate fritte tagliate a mano”. Adattabilità è la parola chiave per stare sul mercato: “Daniel non è mai stato un ristorante da solo menu degustazione. Significa che i cuochi devono sapersi muovere fra le tecniche e le partite, come mi è stato insegnato”.