Esattamente 10 anni fa Aroma entrava nell'empireo degli stellati romani, tagliando il nastro con una cucina di appena 16 metri quadri. Oggi, dietro l'architettura imperiale, il metodo Di Iorio resta immune alle tendenze: un menu che riga dritto sul filo dell’equilibrio e una giovane squadra appassionata.
Fotografie di Guido Fuà
Non c'è niente di semplice o scontato nel cucinare in uno dei posti più belli del mondo. Le acrobazie per saziare le voglie della platea internazionale, lo studio statistico degli insights sul menu, i rally per gestire un flusso di richieste che non scema neanche in bassa stagione: è forse quello che nessuno dice su Aroma, molto più di una bomboniera glamour acquattata in posizione furba di fronte all'Anfiteatro Flavio.
Qui il match si gioca su minuzie che altrove sembrano inezie, dai tempi esatti nell'introduzione di un calice al camouflage di una salsa che eguaglia i toni dell'allestimento, fino alla carta dei dolci modellati come piccoli gruppi scultorei. E la convergenza di flash sul cibo -puntualmente postato e repostato con le antichità in secondo piano- è forse la molla aggiuntiva per far scattare la brigata sull'attenti nelle fasi-clou del servizio.
"Un lavoraccio", direbbe il romano schietto; invece, Giuseppe Di Iorio lo racconta col pathos di chi ama stare sul pezzo. “La maratona è no-stop, persino nei mesi freddi. Però ci ripaga al traguardo, quando vediamo le persone tornare. I turisti, si sa, abbondano, ma abbiamo la nostra fetta di habitué cittadini". Sessioni "muscolari" col cronometro in testa e nelle gambe. Certo, devi avere un menu elastico per reimpastare l'essenza local in forma global. E l'indice di gradimento te lo dà solo il gesto di chi posa il telefono per concentrarsi sul boccone: una manciata di "minuti vissuti" in cui il tasting oscura gli schermi.
Ai piani alti di Palazzo Manfredi accade tanto con la "carbonara shakerata", quanto con una sfarzosa passerella di capesante e wagyu. Perché qui si fanno numeri, ma la vera cifra dell'assaggio è qualcosa di non quantificabile: il fattore x che ha portato lo chef a dare sostanza all'apparenza, pure negli immancabili classici di rito.
Lo chef e il ristorante
Throwback, 2014. Esattamente 10 anni fa Aroma entrava nell'empireo degli stellati romani, tagliando il nastro con una cucina di appena 16 metri quadri. Ora, a scrollare l'Instagram, pare un red carpet sospeso sull'Urbe, fra incursioni di Angelina Jolie e Natalie Portman, fermi restando diplomatici e campioni iscritti al club dei fedelissimi. Eppure, il viavai di celebrità non sottende una carta patinata: nei piatti lo chef perlustra il Mediterraneo a stile libero, ripescando i "capisaldi capitolini" per esporli in una sorta di sightseeing tour multilingue.
Perdere l'orientamento? Difficile, se il menu recita "Dorico, Ionico e Corinzio" (i tre percorsi principali), più Colle Oppio (vegetariano) e l'opzione smart di tre corse incluso il dessert, cui si somma un focus mirato sul tartufo secondo stagione. Dietro l'architettura imperiale, il "metodo Di Iorio" resta immune alle tendenze: niente asprezze spinte o ingredienti impronunciabili, ma un tocco sensibile sui giochi tattili e termici, per comporre incastri di materie prime effetto puzzle.
Un patto bilaterale fra istinto e performance rodato sin dagli inizi, dall'Hyde Park di Londra all'Hotel Inghilterra di Roma, fino al Mirabelle dello Splendid Royale, prima di accendere i fuochi (e i riflettori) del fine dining in via Labicana, dove lo affianca oggi il talentuoso Fabio Sangiovanni.
Così l'estro riga dritto sul filo dell'equilibrio, quasi a voler osare nella precisione: la geometria rigorosa che però esplode di colore; una "puttanesca di cernia" per rimpiazzare il sugo basic; il limone fermentato col suo eco profondo sulla pluma di maiale iberico. D'un tratto lo chef rompe l'ingessatura gourmand e dipana in tavola un filo ludico -creando, però, da sé le regole del gioco.
I piatti
Nel benvenuto l'estetica avanza senza asfaltare la goduria. Sullo sfondo dell'arena millenaria si scontrano due canapè: l'uno con maionese al basilico e salicornia, per un guizzo acquatico nell'emulsione avvolgente; l'altro decorato da un nastro di foie gras e gemme di cassis. Fuori gara c'è il gambero in tempura, che vince facile col crostaceo da pucciare a go-go nella salsa verde; sulla stessa linea d'onda, un raviolo ripieno di cime di rapa e acciughe rilancia l'ultimo sorso opulento di Champagne Brut Origine Mandois.
È una Cacio e pepe al contrario, quella alla base della Lingua di manzo: da cremina della pasta mantecata a intingolo della carne panata, diventa "letto" per una Chianina dalla spessa armatura croccante. In chiusura niente sbalzi di sapidità: lo chef fa retromarcia col topping di visciole e il cipollotto brasato; una manovra diplomatica che riconcilia in corsa fritto e frutto.
Risotto d'inverno? Da Aroma scalda i toni con una folata smoky di whisky torbato. "Per dargli corpo uso un burro rigorosamente francese; la spinta umami viene dal Pamigiano Reggiano stagionato 34 mesi, d'intesa col pesce che compone la salsa alcolica", spiega Di Iorio, accendendo la fiamma dell'interesse. Quest'ultima, infatti, sfuma sul fuoco insieme alle acciughe salate. "A guarnizione, invece, quelle fresche e marinate". L'esito è un residuo morbido, longevo ma non intrusivo -tanto da lasciare il giusto spazio ai germogli disposti in uscita, subito dopo il picco del "quinto gusto". Nel calice rotea un Pomino Benefizio Riserva di Frescobaldi, annata 2022: il primo bianco d'Italia fermentato in barrique, pronto a espandere il blend di aromi con una persistenza imprevista.
Di particolare impatto le Candele spezzate, ragù di faraona e vin brulé: quasi un mandala che intrappola il sapore nella forma, preannunciando un boccone a tinte accese. Colpo di scena: tra i tubetti figurano due "intrusi" farciti a mo' di raviolo e leggermente gratinati col Parmigiano, per innescare un chiasmo di ricordi che va dal formato di pasta (fresca-secca) alla doppia rifinutura (mantacata-al forno). Sulla faraona vige il no-waste: "Dalla polpa ricavo una brunoise, dalla carcassa un fondo profumato ai semi di finocchio che faccio rapprendere per 20 ore". A sorpresa, niente zenzero nel vin brulé: lo chef tramuta la spezia in un'aria sottile per la sferzata di freschezza conclusiva.
Smonta i cliché pure il Glacier 51, merluzzo "regale" proveniente dai ghiacci del fiordo subantartico australiano: se la biodiversità marina è ampliata dalla salsa di cozze e da una lieve polvere di alghe, in cima si fa largo una punta di localismo, laddove il "Wagyu di mare" (coccolato a bassa temperatura e ultimato sulla griglia) accoglie il carciofo e le foglie di broccolo, riportando il baccalà al costume cittadino.
La strofa finale? In rima col resto, a tessere una trama omogenea di sali e zuccheri. Il merito è di Irene Tolomei e Roberto de Santis, "Partners in pastry" dell'insegna capaci di tirar per le briglie ogni eccesso di dolcezza. Notevole il Babà esotico col suo kit tropicale, snellito nell'aspetto e nella bagna completamente priva di alcol; all'interno, un multivitaminico di lime e frutto della passione, mentre nel gel di lampone finisce persino il wasabi.
Risponde a tono la Carrot cake, in cui la torta "mascherata" da ortaggio nasconde inserti di limone e di mango, per un rinforzo succoso sulla chantilly al mascarpone. Infine, cartolina ready to eat: il Colosseo riprodotto nel piatto a mo' di dessert ricotta e visciole. Romanità in punta di forchetta.
Indirizzo
Aroma Restaurant
Via Labicana 125 Roma (Rm)
Tel: 06 97615109
Sito web