Due ristoratori della provincia francese, Bette e Jean-Yves Butteux, hanno pubblicato su Facebook una lettera aperta rivolta ai grandi chef e alle autorità, in cui denunciano le difficoltà che oggi attraversa la ristorazione meno glamour, a rischio di chiusura dopo 4 anni da incubo. “Viviamo di un’eredità, preferiamo pagare dipendenti e fornitori. Ma se nulla cambierà, chiuderemo”.
Foto di copertina: L'Oservateur
La notizia
Va bene la ristorazione pluristellata per il pubblico dei ricchi, pari a un misero 3% del settore; va bene il perdurante tormentone mediatico sui fornelli, che tiene accesa la televisione. Ma restano irrisolti tanti nodi per la ristorazione con la r minuscola, quella artigianale e familiare, ancora sofferente dopo la batosta del covid, l’euforia della ripresa, le nuove emergenze senza fine. Ci sono i famosi prestiti PGE a tasso ridotto da rimborsare, che a suo tempo aiutarono a superare il lockdown, ma le riserve dei ristoranti sono tornate a piangere, a causa dell’inflazione, dell’indisponibilità degli istituti bancari e del calo del mercato, soprattutto business. Bollette, forniture e spese per il personale sono ormai insostenibili.
A denunciare la situazione ha provveduto una coppia di ristoratori, Bette e Jean-Yves Butteux, che portano avanti il loro Ô Goût du Jour a Cambray da 36 anni. Niente di glamour, ben lontano dai riflettori, eppure il frutto di una dedizione operosa e coscienziosa, che reclama attenzione. Quello che chiedono, in fondo, è solo di poter continuare a vivere dignitosamente del loro mestiere, come sottolinea anche la testata L'Observateur.
Lo fanno in una lettera aperta rivolta alle autorità politiche e ai grandi chef, che ha sollevato un certo clamore mediatico. Da allora, dice Bette, il sonno è un po’ migliorato. Del resto la Francia nel secondo trimestre del 2023 ha registrato 13266 chiusure, il 35% in più dell’anno prima. Gli aiuti, infatti, si sono arrestati di colpo, mentre la situazione per varie ragioni continuava a peggiorare. Ne è derivato un quadro da incubo, “quattro anni di lavori forzati, sofferenza, incomprensione, dubbi e disperazione”.
Dopo la crisi, è vero che gli ospiti sono tornati, ma non più come prima: meno numerosi a mezzogiorno, concentrati nel fine settimana. In pratica si lavora tre giorni la settimana, non più cinque. “Oggi sopravviviamo, siamo in apnea”, denunciano i due, che dicono di andare avanti grazie a un’eredità, con il sostegno dei due dipendenti e dei due apprendisti, senza concedersi un salario, perché preferiscono pagare i fornitori e lo staff. La politica dei prestiti non basta più ed è ormai insostenibile. Se tuttavia nessuno interverrà, la chiusura sarà inevitabile, nonostante la forte passione per il lavoro ci saranno sei nuovi disoccupati per strada.