Cucina italiana all'estero

Luca Fantin, da Treviso a Tokyo: lo chef veneto che ha conquistato i giapponesi

di:
Alessandra Meldolesi
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copertina luca fantin

Giunto in Giappone nel 2009, da quasi 15 anni guida con successo l’omonimo ristorante al Bulgari di Tokyo: Luca Fantin ha involucrato il prodotto nipponico nel ricettario italiano, rendendo la sua cucina un ponte culturale.

Lo chef

Da quasi quindici anni Luca Fantin tiene alta la bandiera della cucina italiana sulla piazza ipercompetitiva di Tokyo. E lo fa con una formula particolare: mentre tanti giovani e meno giovani chef italiani guardano al Sol Levante, quale inesauribile miniera di tecniche e di gusti, lui rielabora i piatti italiani con prodotti locali, che abbiano equivalenti nostrani. Il risultato è una cucina italiana di straordinaria delicatezza e leggiadria.

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Raccontami la tua storia

Sono originario di Treviso, per la precisione di Silea. Ho iniziato ad appassionarmi di gastronomia molto presto. In Italia tutti cucinano in casa e io ero un bambino cui piaceva mangiare. Quindi ero sempre dietro alle sottane di nonna Anita, che per me è stata quasi una mamma. Faceva il baccalà con i carciofi, la pasta e fagioli, le sarde in saor, il pollo la domenica; andavamo insieme a raccogliere le erbe nei campi e le pulivamo tutto il pomeriggio. Tanti ricordi. Dopo ho iniziato a lavorare in un’osteria vicino a casa, come cameriere, ma essendo molto timido mi hanno passato in cucina. Ho frequentato l’alberghiero e compiuto varie esperienze in Italia e all’estero. Un professore mi ha mandato a fare uno stage al Bersagliere di Goito da Massimo Ferrari, chef molto bravo per l’epoca, così già a 18 anni mi è preso il trip dei ristoranti stellati.

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Ho lavorato in Italia e all’estero, in particolare al Mugaritz di Andoni Luis Aduriz e alla Pergola di Heinz Beck. Il Mugaritz a quell’epoca era molto “Michel Bras”, legatissimo ai prodotti della foresta e dell’orto, meno avanguardista di oggi. Heinz Beck dal canto suo era un po’ più classico, con una cucina decisa nel sapore. Più di padella, anche se si stava modernizzando e stava diventando più salutare. Mi chiedeva spesso: Ma tu cucini per i cuochi o per i clienti? Vuoi stupire o fare da mangiare? E io ho proseguito su questa direzione, cercando di dare gusto al piatto e mettendo al centro l’ingrediente, che deve essere sempre riconoscibile.

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Come sei arrivato in Giappone?

Era la fine del 2009. Avevo quasi trent’anni, ora vado per i 45. Bulgari stava cercando un ragazzo giovane, Stefano Baiocco mi ha suggerito di cogliere l’opportunità, all’inizio ero un po’ scettico, poi è finita che ho trovato moglie e oggi ho tre figli. All’inizio è stato uno choc, perché non volevo adattare la mia cucina ai prodotti locali. In Giappone viene importato di tutto, ma a un certo punto ho capito che dovevo cambiare, perché la qualità era alta anche qua. Ho imparato la lezione, ho iniziato a focalizzarmi sul territorio e a esplorare le diverse province, confrontandomi con contadini e pescatori. E mi si è aperto un mondo. Guarda che paese è questo, che serietà, mi sono detto. Da lì ho cominciato a involucrare il loro prodotto nel ricettario italiano, è stato tutto un rincorrere qualcosa di eccitante e di nuovo.

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E il ristorante ha aumentato la qualità anche del cibo. Come regola, mi sono dato di usare solo ingredienti che conosco dalla cucina italiana, né soia né natto, quindi olio di oliva, agnello, carne rossa con poco grasso e pesce. Mi ha aiutato, altrimenti mi sarei perso in mezzo a troppi sapori. Occorre comunque un bilanciamento, perché sono ingredienti diversi, quindi se le carote sono molto dolci, nel brodo di pollo non le metto o le uso come la cipolla. Idem i pomodori, con salse che vanno bilanciate. Se il pesce è troppo fresco, è duro, mancano il grasso e la tenerezza, quindi la frollatura è una necessità. Un rombo da 3 chili deve riposare almeno 5 giorni.

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Il palato giapponese come ha reagito?

I giapponesi adorano la cucina italiana. Sono molto sensibili alla sapidità, nel senso che mangiano meno salato, e alle temperature, perché qui è tutto molto caldo o molto freddo. Per loro il carpaccio deve essere freddissimo, da noi non dico a temperatura ambiente, ma quasi. Come il vitello tonnato. Hanno anche un palato più secco, nel senso che hanno sempre bisogno di umidità, per questo mangiano molte zuppe. Noi amiamo mordere il cornicione della pizza, loro preferiscono consistenze sulla palette del morbido, come il mochi. Sono andato nei ristoranti giapponesi per capire cosa ci fosse dietro il piatto. Ma la mia cucina non è stata contaminata. Ho comunque assorbito tecniche che impiego, per esempio il taglio del pesce, l’ikejime, le marinature e la preparazione dei brodi. Anche io cucino molti brodi al vapore, per esempio con le gambe del pollo, per un esito di maggiore delicatezza, leggerezza, aromaticità. Qui è tutto più delicato e gentile.

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La cucina italiana e quella giapponese hanno punti di contatto?

Come accade quando le cucine si fondano su una tradizione solida, la gente sa distinguere fra il buono e il cattivo. Poi sono due cucine legate alla stagionalità: in Giappone contano 72 micro stagioni e ogni volta variano la foglia del menu e il kimono. La base comune sono carboidrati, verdure, pesce e carne, poi cambia il modo di cucinare. La loro base è il dashi, la nostra l’olio di oliva o il burro. Ma l’ingrediente e la sua freschezza restano sempre al centro.

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Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Mi vedo qui in Giappone. Abbiamo diversi eventi in calendario, collaborazioni con lo chef di Ducasse e Dom Pérignon, poi con i Cerea e a giugno con lo chef coreano Mosu, bravissimo. Oltre al ristorante di Tokyo, gestisco anche quello di Bali, che pure porta il mio nome. Ogni anno mi reco sull’isola almeno tre volte e forse arriverà anche la Michelin. Al momento non penso di tornare o aprire in Italia, potrei forse considerarlo quando i bambini saranno più grandi. Loro mangiano un po’ di tutto, fra il giapponese e l’italiano. Ma sono amanti della pasta. Se chiedo loro cosa vogliono mangiare, è sempre pasta al ragù o al pesto.

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