Lo chef Albert Ventura del Coure di Barcellona analizza le realtà ristorative in Catalogna e ci racconta un po’ della sua vita -incluso il punto di vista sulle esigenze della clientela.
L'opinione
Lo chef Albert Ventura del Coure di Barcellona non le manda certo a dire: in una recente intervista a La Vanguardia riflette spesso sui momenti difficili che la Catalogna ha vissuto negli ultimi anni e su come questi abbiano influenzato a loro volta il settore. Ma mette in discussione anche il ruolo dei cuochi: "Non siamo buoni uomini d'affari, eppure, come diceva Guardiola: se giochi bene -nel nostro caso se cucini bene- e ti occupi del funzionamento del ristorante, vincerai". Qualcosa che nel suo caso implica sì soddisfare il cliente, ma anche “cercare commensali che la pensino come te o che intendano il ristorante come lo intendi tu”. Sarebbe, quindi, lo chef stesso a selezionare gli ospiti. Altrimenti: “Se dai retta a tutti, il cliente finisce per farti fare il ristorante che vuole lui e non quello che vuoi tu”.
Insiste anche nel dire che non crede sia necessario imitare modelli di successo particolari, perché sono irripetibili e provarci porterebbe al fallimento. Ammette di evitare lo sforzo di concettualizzare e vendere cibi infiocchettati, e di limitarsi a realizzare la cucina che vorrebbe trovare in un ristorante. “Poi non seguo le tendenze. Sono anti-marketing”.
Ventura prosegue senza filtri, assicurando di non aver mai capito gli elogi della critica: "Quando lavoravo in ambienti importanti e arrivavano critici come Rafael García Santos, sembrava che stesse arrivando Satana, tutti erano nervosi e io non lo capivo". Ammette, ovviamente, di non aver mai ricevuto una recensione negativa, ma di non aver mai fatto nulla per accontentare la critica. Inoltre, non nasconde che per quanto sia entusiasta della sua professione, in 20 anni non sono mancati momenti difficili, anche se non sufficienti a fargli pensare al “suicidio professionale”. E insiste che la cosa difficile non è aprire un ristorante, ma restare sul pezzo per 20 anni, soprattutto mentalmente e con entusiasmo.
Spiega che detesta la “solita liturgia dei ristoranti”: “Non la sopporto, mi è molto difficile per come sono fatto” e porta l'esempio del servizio del vino. “Lo adoro, ma non tollero tutte le chiacchiere che ci fanno intorno. Quando ordino un vino voglio che tu me lo apra e nient'altro”. Alla luce di questo detto, lo chef di Coure riconosce che non è facile lavorare con lui, ma spiega che molti di coloro che hanno fatto parte nel tempo della sua squadra lo ringraziano per la pazienza che ha avuto nell'insegnare loro a cucinare.
Spiega anche che non gli ha mai dato fastidio il fatto che coloro che lavoravano con lui aprissero un’attività in proprio: “Tutto il contrario: lo abbiamo fatto anche noi a nostro tempo”.