È pari a 250mila euro, la dote che la ventesima edizione di Festa a Vico porta in beneficenza a diverse ONLUS. Un bilancio ampiamente positivo anche sotto il profilo della partecipazione e della qualità, che lascia ben sperare per il futuro della cucina italiana.
L'intervista
“Ce l’abbiamo fatta”. Gennaro Esposito non nasconde la stanchezza alla fine di questa ventesima, intensissima edizione di Festa a Vico, dopo tre anni di apnea. “Come al solito ne usciamo con le ossa rotte per la fatica. Sono stati giorni frenetici, tutta la squadra della Torre del Saracino ha lavorato sodo per supportare gli chef intervenuti, in modo che non mancasse niente a nessuno. Faccio loro i complimenti per la testardaggine e il senso di solidarietà, a maggior ragione perché non era dovuto. Quest’anno poi abbiamo assistito a una grande partecipazione da parte delle istituzioni, con rappresentanti che si sono spesi tantissimo e hanno dato alla Festa un’importanza incredibile. Qualcosa che mi fa ben sperare nel futuro: con una squadra così forte e positiva, possiamo essere ancora più ottimisti”.
Qual è il bilancio di questa edizione?
Abbiamo raccolto 250mila euro di donazioni grazie alla partecipazione di tutti gli chef, che sono stati formidabili attrattori oltre che grandi professionisti. Il livello del cibo è stato interessantissimo, con contenuti molto nuovi e meravigliose espressioni della voglia di andare avanti della cucina italiana, che mi motivano ancora di più. Abbiamo sentito intorno a noi competitività e competenza e ora ci rimettiamo al lavoro con una bella consapevolezza. Personalmente sono stato molto contento di Forma e sostanza, dove sono stati dibattuti argomenti interessantissimi. Bellissima la degustazione di vini bianchi maturi, Derthona e Brunello di Montalcino organizzata dal mio sommelier Giovanni Piezzo, che ha segnato un momento molto alto dal punto di vista dei contenuti, ancor più importante visto che il vino nella Festa era sempre un po’ mancato. Il paese ha risposto alla grande, con entusiasmo. Non siamo stati infallibili e chiediamo scusa per le mancanze, ma il desiderio di fare può portate a strafare.
Che differenze hai registrato rispetto alle edizioni precedenti?
Viviamo in altri tempi, quindi anche noi abbiamo sofferto la mancanza di personale e di volontari. Un altro segnale del fatto che a lavorare siamo sempre meno. Ho visto però una rinnovata curiosità attorno al cibo, tanti giovani pieni di voglia di spendersi, che in alcuni casi hanno fatto donazioni importanti per le ONLUS coinvolte. Anche fra gli chef della cena delle promesse c’è stato un bel clima, ho trovato la mentalità giusta, una bella maturità e capacità di fare gruppo tutti insieme, gomito a gomito. Non avevo dubbi, ma è sempre bello vederlo e toccarlo con mano.
Qual è la lezione per la prossima edizione?
Adesso ci lecchiamo le ferite e ci confrontiamo. Dobbiamo essere bravi a fare meno cose e a farle meglio, tenendo magari iniziative nel corso dell’anno, in modo da non spegnere completamente i motori. Perché riaccenderli è una fatica esagerata. Andremo sempre più verso i giovani, senza dimenticare l’idea di trasversalità del cibo, che ci piace molto. Cercheremo di mettere un po’ di ordine e di concentrarci. Continueremo a muoverci con lo spirito di innovare e provocare, spingendoci oltre la normalità.
Cosa ti ha colpito dei tuoi assaggi?
In generale ho visto un ritorno alla materia e al gusto, meno fronzoli di qualche anno fa e una maggiore attenzione ai contrasti, molta italianità e rusticità, esaltate in modo straordinario. La Festa ha parlato tanti dialetti, nel senso che molti chef hanno portato piatti di famiglia, esaltati dalla tecnica e dal cuore. Oggi la cucina italiana si è internazionalizzata, alcuni piatti ultrapopolari sono difficili da catalogare, speriamo che in sede Unesco passi il concetto di una cucina unica.
Festa a Vico ha influenzato la cucina della Torre del Saracino?
Inconsapevolmente sì. Tutte queste cose che ci passano davanti agli occhi lasciano inevitabilmente il segno e nei prossimi giorni mi confronterò con i miei ragazzi. Ho assaggiato poco, appena uno spicchio di Sicilia, tanto ero preso dagli impegni. Ma davanti ai piatti di Cuttaia e Lo Coco, mi sono detto che invecchiando stiamo diventando più contemporanei, andiamo più dritti ai sapori e ai ricordi, ci leghiamo alla forza dei prodotti, che ci danno grande identità oltre l’idea.