La curiosità: è grazie a questo “fattore x” che un giovane talento come Giuseppe D’Errico ha ottenuto il ruolo di sous chef al fianco di Michel Troisgros. Oggi lo troviamo a La Madernassa, dove firma un menu di grande impatto.
La Madernassa
La storia
Arrivare a Guarene è sempre un grande piacere per gli occhi, oltre che una fonte di importanti aspettative per la gola: si trova qui La Madernassa, un posto dove lo star bene e un’alta idea di gusto possono vivere in armonia. Lungo una stretta, panoramica strada di collina che si snoda lungo il confine tra Langhe e Roero, Madernassa vuol dire stanze accoglienti, un grande giardino e tanto, tanto verde. Serra e orti sono uno dei pilastri di una realtà che non è green solo perché oggi va di moda: lo è di fatto e questo si riflette anche nella freschezza di una cucina rinnovata, che vale in pieno le due stelle Michelin conquistate in un’epoca altra, quando ai fornelli non c’erano ancora i due fratelli D’Errico.
Racconta Fabrizio Ventura, che de La Madernassa è il primo creatore: “È stata una cosa così, ero fotografo e giornalista, mia moglie faceva la commercialista, sono nato e cresciuto a Carate Brianza e qui avevo comprato questa cascina. Fino a 34 anni ho vissuto in Lombardia, poi mi sono spostato. L’ho comprata per farne uno studio fotografico, all’epoca mi occupavo di still life e moda.” Ventura però non calcola è che l’edificio è un’abitazione agricola e tra le destinazioni possibili quella non c’era. Poco male: “Era il 1995, abbiamo iniziato a comprare qualche terreno e nel fine settimana ci divertivamo con galline, conigli, pavoni e l’orto: invece che andare al mare venivamo qua.” Arriva il 2001 e con lui una legge regionale che prevedeva contributi a fondo perduto per nuove situazioni turistico ricettive: “Per cui ci siamo guardati in faccia e abbiamo detto: ‘Dai, facciamo un ristorante’, anche se in realtà avremmo voluto anche le camere, ma allora non era possibile.”
La Madernassa prima versione apre nel maggio del 2003, lo chef è un ragazzo giapponese che aveva lavorato con Davide Palluda, con un’esperienza all’Antica Corona Reale di Cervere, molto bravo sulla tradizione. Il sodalizio dura 11 anni e nel 2014 se ne torna in Giappone. “Eravamo a un bel livello ma a quel punto la struttura avrebbe avuto bisogno di qualcosa di diverso, così abbiamo iniziato a cercare e alla fine è uscito il nome di Michelangelo (Mammoliti, n.d.r.)” Il progetto parte a maggio dello stesso anno, è molto ambizioso e all’alta ambizione risponde con coerenza; viene rinnovata la cucina e la parte esterna cresce con una serra importante, attualmente 120 metri quadrati con oltre 200 varietà di erbe e fiori commestibili. La prima e la seconda stella arrivano velocemente, poi i due anni della pandemia: “Ma non abbiamo ceduto alle difficoltà, finché il 30 settembre del 2021 arrivano le dimissioni del cuoco. Un’uscita rocambolesca, ci siamo trovati in difficoltà. L’unica cosa positiva è che tanti chef si sono fatti avanti, perché avevamo una nomea di serietà.”
Vengono valutati una quindicina di professionisti; Luciano Tona suggerisce Giuseppe e Francesco D’Errico: “L’idea era quella di trovare non tanto una punta di diamante, ma una squadra forte e solida, di cui una parte lavora in sala e l’altra in cucina: unica tensione, la determinazione a mantenere il livello raggiunto. Così ci siamo conosciuti, siamo partiti e sono molto soddisfatto, Giuseppe è l’executive e il fratello lo chef de cuisine: vanno molto d’accordo, perché uno è più mente creativa e l’altro organizzativo e operativo.”
Ivan Delpiano è cofondatore e attuale CEO della struttura. Instancabile, è una figura fondamentale per il nuovo corso de La Madernassa. Quel che trapela dalle sue parole è una soddisfazione mista a sollievo, per un ambiente di lavoro che è diventato più piacevolmente omogeneo: “Non è stato semplice, ma ora sono contentissimo del nuovo staff: abbiamo innestato finalmente quasi il 50% di ragazze e l’ambiente è davvero bello da vivere; quando abbiamo cominciato a ricostruire le squadre ci siamo detti ‘non importa l’esperienza e che cos’hanno da offrire, ma il tipo di persona’. Lavoriamo sul fattore umano, poi quel che c’è da imparare si impara. C’è una vitalità che prima non esisteva, al di là del fatto che le persone sono differenti, però ora il brainstorming su cosa si può fare per rendere sempre più bello e più piacevole ogni servizio per l’ospite che vive il resort in generale è continuo. Tra le altre cose abbiamo rivoluzionato le colazioni, abbiamo messo in piedi il barbecue per gli ospiti della piscina: c’è voglia di fare, non solo dietro il pass. Ci vorrà tempo, ma siamo sulla strada buona.”
Lo chef
Giuseppe D’Errico è un giovane dai modi pacati e dalla determinazione di ferro: classe 1987, campano, arriva da una famiglia che da cinque generazioni è attiva con una macelleria di prestigio: “I miei hanno fatto sempre una ricerca smisurata sulla qualità e in casa siamo cresciuti con valori come qualità e ricerca assoluta sul prodotto, qualsiasi esso fosse, al di là delle carni.” Una nonna ex cuoca sulle navi di Achille Lauro, il nonno paterno con un’osteria, Giuseppe vanta studi scientifici: “Andavo bene a scuola e in quel periodo non sai ancora cosa vorresti fare da grande. Però la passione me la sono sempre portata dentro, infatti al secondo anno volevo cambiare e non mi è stato concesso.” Così, finita la maturità, chiede al padre di lavorare in cucina: “Lui da buongustaio aveva contatti con diversi ristoratori e disse: ‘Ok, invece che andare in vacanza vai a lavorare’. Non credeva in questa cosa, pensava fosse un mio capriccio, ma grazie alle sue conoscenze mi mandò da Antonio Pisaniello.”L’esperienza con questo chef va benissimo, tra Capri e Nusco: “Cinque o sei mesi intensi, fu faticosissimo, ma mi resi conto che era proprio quello che volevo.” Così si iscrive all’Alma a tecniche di base, mentre il fratello Francesco era già al corso superiore, essendosi formato alla scuola alberghiera. “Volevo accorciare i tempi, ho avuto grandi insegnanti, come Luciano Tona, Silvio Salmoiraghi e Matteo Berti. Fu all’Alma che nacque per me il mito di Gualtiero Marchesi e mi prefissai di fare un percorso come il suo andando in Francia per capire quello che lui aveva capito.” Terminata Alma Giuseppe e Francesco fanno una breve esperienza in proprio a Paestum. “Un periodo di dieci mesi, molto positivo. Ma volevamo crescere, rendendoci conto dei nostri limiti”. È Tona a indirizzare Giuseppe a Roanne da Marco Viganò, il quale aveva lavorato da Marchesi e da Troisgros.
Sfoglie di cipolla cotta al sale, trancio di cipolla cotta in un brodo di cipolla affumicata, pralinato di cipolla, tuorlo d’uovo confìt, cremoso e chips di cipolla
“Rimasi all’Aux Anges un paio d’anni, con Marco nacque una grande amicizia: eravamo in due per 40 coperti a servizio senza lavapiatti. A me restava però l’idea di entrare in una grande casa.” Inizia a mandare la sua candidatura da Troisgros, viene rifiutata ma Giuseppe è caparbio: “Arrivai a presentarmi una settimana sì e una no. Avranno pensato: ‘O e matto o ci crede’. Così passano 2 o 3 mesi e quando meno me l’aspettavo mi chiamarono per un colloquio.” Lo mettono alla prova, facendolo iniziare al bistrot in pasticceria: “Era un sorta di crash test, il primo mese è stata davvero molto dura, sotto uno chef con 9 anni di esperienza alla maison, con dei modi rudi per non dire altro, però tutto questo mi creava adrenalina”. Dopo un mese, Giuseppe gestiva la partita di carni e pesci; spesso passava da lì anche lo chef Michel Troisgros che nel frattempo aveva notato la sua rapida progressione. “Dal lunedì al sabato stavo al bistrot e domenica alla grande maison: era il giorno più bello della settimana per me: da commis al pesce caldo sono passato rapidamente a capo partita. Mi sembrava impossibile, ero subito sotto al sous chef nella partita del pesce, l’ultimo italiano nella posizione prima di me era stato Paolo Lopriore.”
La carriera interna di Giuseppe è rapida e un bel giorno Michel Troisgros rimane colpito da un suo piatto creato per un test: “L’ho appoggiato e me ne sono andato di corsa, fino a quando non sentii lo chef che gridava domandando chi l’avesse fatto: ‘sono stato io, risposi’. Mi chiese se sarei stato capace di riprodurlo allo stesso modo e io risposi ‘certamente, ho pesato tutto’. Lì ti danno metodo, ti insegnano a standardizzare qualità ed eccellenza.” Dal giorno dopo il piatto, lo sgombro al Campari, sarebbe stato inserito nel Grand Menu: “In realtà il Campari non c’era se non per il colore. Era un’entrée fresca, con una gelatina morbida e lo sgombro prima cotto al vapore e poi alla brace: un gusto tipo americano con la parte amara data da infusi di miscele di agrumi e genziana, ma senza alcol.” Così a 25 anni Giuseppe D’Errico diventa sous chef alla Maison Troisgros. “Entrando nell’esecutivo potevo dar sfogo al mio pensiero. Lavoravamo solo con i petit bateaux, c’era un fornitore per ogni singolo ingrediente e nel weekend facevamo 80 coperti a servizio. Non sono i numeri il problema, ma come li gestisci sulla base della struttura fisica della macchina, nel nostro caso una Rolls Royce della cucina. Con tre pass di sette otto metri e 12 persone a impiattare, ne mandi fuori di roba. Tante cose le capisci solo vivendo quei luoghi.”
Nasce anche un eccellente rapporto personale con chef Michel: “Un valore enorme per me, anche solo viaggiare con lui per lavoro. Mi ha trasmesso la passione per l’arte e ogni momento era utile per visitare una galleria. Mi diceva: ‘Sei curioso, ti interessi nel modo giusto’.” Prima di andarsene in Svizzera dopo i sei anni trascorsi con Troisgros, Giuseppe viene coinvolto nei progetti del passaggio da Roanne a Ouches: “Non ti capita tutti i giorni di seguire un tre stelle dal cantiere al progetto alla realizzazione, perché capisci cosa c’è dietro una struttura così.” Nel 2018 da executive del Ristorante Ornellaia di Zurigo conquista la stella Michelin in tempo record, poi arriva la pandemia, cambiano le strategie e Giuseppe se ne va, lavorando da chef privato e come consulente per una grande azienda: “Ma mi mancavano un pubblico preparato e l’adrenalina del servizio.” Così, grazie ancora una volta a Luciano Tona, approda a Guarene vincolando la sua presenza a quella di Francesco.
I piatti
Quale sia il pensiero gastronomico di D’Errico lo si capisce dai suoi piatti e dal modo in cui li presenta: “Fare ristorazione è creare un bel momento che deve passare attraverso la cucina, il servizio, l’accoglienza e il buon vino. Poi, ormai, penso che il modo eccessivo di raccontare le cose stanchi l’ospite, che non vuole più le favole. Certo siamo in grado di spiegare come le cose sono pensate, ma è il gusto la vera matrice, devi saltare dalla sedia per quello che stai mangiando.”
Nelle preparazioni abbiamo ritrovato una sorta di piacevolissimo ricorso alla grassezza. “È la gourmandise che cerchiamo per dare rotondità, ben controbilanciata dall’acidità, sebbene nella nostra cucina non ci siano picchi di acidità smisurata come da Troisgros: sono arrotondati per dare piacere e avvolgenza ben bilanciati. Questo siamo, noi la nostra cucina: non voglio peccare di presunzione, può piacere o no, ma il livello penso che ci sia. Portiamo una visione nuova, oltre al territorio che è la base dove partire per poi spaziare. È tutto un divenire, ci sarà modo e tempo per crescere, tenendo presente che quando pensi che vada tutto bene è il momento in cui si fanno le cose sbagliate. La qualità va mantenuta nel tempo.”
Va da sé che i piatti ci hanno convinto senza riserve, a partire dalla squisita foglia di riso farcita con petali di pomodoro confit, pesto di basilico e acqua di pomodoro condita con semi e olio al basilico. Così anche come una parmigiana di melanzane, con il vegetale laccato con succo di barbabietola e accompagnato da pesto di basilico e stracciatella.
Notevole il re dei funghi: latte cagliato, duxelles di porcini, panna cotta ai funghi e una vinaigrette da estratto di champignon e olio alla nocciola. Di grande intensità e dal gusto indimenticabile torba mente, gli spaghetti cotti in estrazione di foglie di limone con whisky torbato e polvere di limone bruciato.
Ancora, buonissima l’anguilla velata: cotta allo yakitori, condita con burro alle erbe aromatiche, uva sultanina di Pantelleria al Vermouth di Torino e servita con un velo di Lardo di Colonnata. Succulenta transumanza, la sella di agnello della macelleria Varvara marinata con spezie e erbe, servita con terrina di zucchine e cetrioli e salsa tzatziki. Golosissimo anche il kebab, sempre d’agnello, con yogurt epicé.
Bella freschezza con la salade rouge: barbabietola, frutti rossi, pomodoro confit, erbe, fiori, vinaigrette di ciliegie e gelato all’olio extravergine di oliva. Mandorla, pesca e amaretto per terminare in mitigata dolcezza una cena da incorniciare.
Mandorla, pesca e amaretto
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