La Liguria ha deciso: adottiamo Mattia Pecis. In pochi mesi il giovane chef ha fatto il salto estetico e gustativo in quel di Portofino. Netto anche l’affrancamento dal tutoraggio cracchiano, senza dimenticarne l’eredità, e la definizione di uno stile proprio, con la sua firma.
Lo chef e il ristorante
Siamo tornati da Mattia Pecis a Portofino e abbiamo fatto benissimo. Lo chef con lo zainetto, chiamato da Carlo Cracco a condurre il fu blasonato Pitosforo, è in gran forma. Ci ha confidato che qualcuno gli ha regalato uno zaino nuovo, ma lui l’ha messo in un angolo perché zainetto che vince non si cambia.
Mattia non sta più facendo rodaggio da un pezzo. Ormai è un local, adottato da Portofino come un figlio della costa. E i liguri, anche se potrebbe essere un’immagine un po’ stereotipata, non sono per niente facili a simili “adozioni”.
Nel golfo del Tigullio è giornata di regate e il porto della sua perla ha due facce. Da una parte attraccano barche a vela da 30 mt. Gli equipaggi fanno fuori prima la salsedine poi birra e pastasciutta, meritatamente svaccati sui ponti. Dall’altra, su un traghetto che se avesse coscienza starebbe chiedendo aiuto, una massa di turisti trattiene il fiato per la crocerina gulfurea e per il selfie al largo. La medaglia è la stessa, la luce diversa.
Mattia ha un accenno di pizzetto. Anche esteticamente è maturato? Ci cale poco. Sicuramente ha mantenuto il carapace serrato verso il glamour che trasuda da queste coste e che intride l’aria, più della salsedine. Nel suo territorio - il ristorante, la terrazza, le relazioni con la brigata e i fornitori - la bellezza è rete che ti attira nella sostanza.
Facciamo i confronti per una volta: il design dei suoi piatti, lo vedi subito, ha fatto il salto estetico. L’impiattamento un netto passo avanti, verso il piacere visivo. Netto è anche l’affrancamento dal tutoraggio cracchiano, senza dimenticarne l’eredità, e la definizione di uno stile proprio. E di una firma. Con tutti gli attributi e il rischio che questo comporta. Mattia non è un calcolatore e nemmeno un’intelligenza artificiale. È naturalezza autentica.
Dicevamo dell’impatto estetico dei piatti. Ecco. Sarebbe solo sabbia negli occhi se non avessimo visto e assaggiato i limoni di Alberto, il marito di Iva, la pusher di vegetali che tre volte a settimana scende dai colli con la sua Ape e di cui avevamo già parlata un anno fa. O il fegato affumicato di rana pescatrice, o il disco di acqua di vongole disidratata, in pratica un fossile di mare. Dietro la bellezza c’è una ricerca e una dedizione alla materia, che potrebbe essere ossessiva compulsiva, se non avesse la leggerezza del sorriso di Mattia.
Un morone da 30 kg, due totani xl, destinati ad essere imbuttunati e poi scaloppati, due besughi che anche da morti facevano due occhioni dolci così. Anche alla fine del nostro pranzo la sostanza è il ritornello che non viene mai messo in pausa. Ci sono prelibatezze di mare difficili da trattare e da trasformare, quindi non le compro. Mattia prende tutto, un modo lo trova. Alla bellezza sembra non poter resistere, il tempo lo trova, qualcosa si inventerà.
I piatti
Nuove idee e intuizioni guizzano dappertutto, anche riguardo ai signature creati con Cracco. Il Corzetto, entrée simbolo del ristorante, è ancora più goloso grazie alla spuma di pinoli. Dell’insalata russa cracchiana rivista alla portofinese, che dire. Per noi basta un “fidatevi è buonissima”.
Arriviamo al primo signature di Mattia Pecis: l’Alice. Un’idea che per noi, se reggerà il corso del tempo, potrebbe avere lo stesso valore dell’insalata russa. Una crostatina in cui le acciughe formano un intreccio quasi ipnotico in superficie (benedetto sia l’intrecciatore della brigata). Mattia “ha svoltato” una ricetta di Genova del 1300, la pissalandrea.
La classica torta salata ligure, sublimata e concentrata in tre bocconi che sanno di cipolla caramellata, olive taggiasche, pinoli e, appunto, acciughe, condite con un carpione. Un mordere intenso e, contemporaneamente, forgiato da tecnica e equilibrio.
Quello che segue sono due primi piatti che il mare è ancora lì che si sfrega le onde. Il Risotto mantecato, cavolo nero alla brace, lumachine di mare e salsa Prescinseua è il next level del risotto alle triglie presente nel menù del 2022. Il cavolo nero cotto alla brace è coltivato, manco a dirlo, nell’orto di (sant’)Alberto.
Da quello si ricava una crema di un verde fondo marino a cui si aggiungono le lumachine emulsionate con aglio orsino a cui viene unita la salsa prescinseua, dalle manine, sante pure quelle, di Iva. A chiudere il piatto fiori di cavolo nero sottaceto e polvere di alghe essiccate.
Il secondo primo piatto è un’idea che nasce dallo sfinimento, dalla frustrazione che si tramuta in creatività. Dicevamo delle sardine umane sul traghetto no? Non per forza loro, ma persone con lo stesso approccio ed un obiettivo di massa, capitano anche tra i tavoli di Cracco a Portofino. Ci dicono siano a maggioranza straniera. E per la legge universale del telefono-senza-fili-del-turista-che-sceglie-le-coste-italiane cosa mai chiederanno? Uno Spaghetto alle vongole. Retorica baby, retorica. La comanda arriva in cucina.
Ci immaginiamo la scena - totalmente frutto della nostra inclinazione a scrivere fiction - in cui la brigata si riunisce, uno dei cuochi stringe nel pugno sei fiammiferi, il più corto perde. I bastoncini vengono estratti, cinque ridono, uno sbuffa. E va a cucinare, con il sorriso in panchina, un grandissimo spaghetto alle vongole. Ecco, a rompere questo rituale - e questa non è fiction - arriva quel guastafeste dello chef a cui viene l’idea di portarlo a livello alieno. Prima di servirlo, ci mostra un disco grigio-verde. Sembra un minerale fossile.
È acqua di vongole disidratata, l’intuizione per dare uno schiaffo alla solita coccolina richiesta dal cliente. Lo spaghetto viene mantecato alla crema di vongole, precedentemente affumicate, alla quale è aggiunto il limone salato, un olio al prezzemolo e cinque varietà di basilico (thai, greco, genovese, viola e limonato). L’acqua di vongole viene grattugiata direttamente al tavolo. Mai come in questo piatto il salmastro è stato più confortevole. O forse è il comfort a essere stato più salmastro?
Dopo un Asparago cotto in crosta di argilla e alghe, servito con salsa koji e camomilla, a rappresentare un’esperimento di non poco azzardo da parte di Mattia dato che l’asparago bianco non è una varietà che cresce sui promontori liguri, ci viene servita la Testina di ricciola, occhiona, dentice e trombetta della morte, appoggiata su una focaccetta ligure.
Un altro azzardo? Beh, al St.Hubertus lo chef la faceva con il maiale. L’approccio no waste marino forse è meno usuale: teste, guance, fronte e gola sono cotte con aromi, poi insaccate e infine lasciate in cella di maturazione per alcuni giorni. Sulla testina vengono aggiunte polvere di nero di seppia, funghi e prezzemolo. Uno street food hardcore ad alto tasso tecnico che ri-sottolinea quanto allo chef piacciano gli estremi e non solo i confortevoli equilibri. La cella di maturazione, regalo di babbo natale Cracco, ha contribuito ad appuntire questi estremi.
La cavalcata termina con un dessert smodato e una coccola enorme. Un pugno e una carezza insomma. Il Gelato ai fiori d’arancio, nespola, polline e chinotto bruciato, servito all’interno di un guscio di riccio di mare viola, lucidato con cera d’api, è uno splendore. Il canto del dessert ti attira all’interno dove una fionda ti colpisce il palato, prima con la potenza del polline, subito dopo con l’intensità bifronte della nespola fermentata, così sapida e acida che lo chef dovrebbe usarla anche su un piatto di carne o di pesce(carne).
Il buchteln è un lievitato dolce di origine austriaca, pensato per la condivisione. Mattia, che il suo lo chiama Lievitato del Molo Umberto I, lo profuma con uno sciroppo alla lavanda e lo accompagna con una composta di fragoline di bosco e menta bianca. A dire la verità non ci aspettavamo un epilogo simile, con un dolce così tradizionale. Sta di fatto che lo abbiamo divorato assieme ai nostri preconcetti. Con il senno di poi ci ha fatto pensare a quei ristoranti che ad esempio usano la torta di rose in chiusura, a contrasto con dessert sicuramente più esperienzali ma di certo meno soddisfacenti.
Mattia Pecis non si sta riparando all’ombra di Cracco, sebbene mostri la riconoscenza a chi lo ha fatto fiorire. Per noi si merita già riconoscimenti pubblici e gli auguriamo che arrivino al più presto. Nel frattempo continuerà ad andare su e giù in scooter tra il mare e la montagna, con il suo zainetto in spalle e suoi sogni nel vano sottosella, come a dire “io non maturerò mai”, perché chi matura troppo poi si ferma.
Foto di Niko Boi
Indirizzo
Ristorante Cracco Portofino
Molo Umberto I, 9, 16034 Portofino GE
Tel: 0185 163 6026