Creativa, esatta, effervescente, la cucina di Ciro Scamardella intreccia gli insegnamenti di Roy Caceres, maestro di contaminazioni, con il richiamo delle origini napoletane e un’italianità centripeta sulla materia. Trovando il contrappunto perfetto nella professionalità scherzosa di una grande sala.
Pipero
Il ristorante
Ha scommesso su Roma l’ultima guida Michelin, lasciando Milano un po’ al palo. Ed è una piazza che ha tanto da dire, dipana le sue genealogie e manifesta una fisionomia tutta sua, composita e originale. Fra i protagonisti c’è da tempo Alessandro Pipero, che lasciata la storica sede del Rex, nel 2018 ha riaperto nel centrale Corso Vittorio Emanuele, dentro gli spazi interamente rimaneggiati di quella che era stata una banca, e prima ancora una pasticceria.
Con lui lo chef Luciano Monosilio, che ha poi scelto altre strade. Un azzardo? Probabilmente sì, quando tanti cercano il guscio sicuro di una grande struttura. I locali incentrati sulla figura del patron si contano peraltro su una mano in Italia. Eppure, la sfida è stata vinta, ormai si può dire, anche grazie al giusto partner in crime.
Quando è entrato in cucina, nel 2019, Ciro Scamardella aveva trent’anni e non era mai stato chef. Campano di Bacoli, aveva svolto una gavetta serrata, perlopiù nella capitale. “Di voglia di andare a scuola da ragazzino ne avevo poca, ma i primi extra durante l’alberghiero mi avevano fatto capire che c’era da divertirsi. Poi un paio di stagioni a Filicudi e all’Isola d’Elba, il passaggio al Gambero come tutor nei corsi professionali e l’incontro con Paolo Barrale, al cui fianco mi sono fermato un anno e mezzo; e ancora Villa Crespi, il Pagliaccio, Metamorfosi e Lasarte di Martin Berasategui.
Avevo già pronta una proposta di assunzione, quando Genovese si è rifatto vivo per il ruolo di capopartita, poi dopo un anno agli antipasti è stato Caceres a farmi sapere che gli mancava il junior sous-chef. Con lui ho trascorso quattro anni e sono uscito secondo. Gli devo tanto: ha una grande mano e una grande testa, non dà niente per scontato e si chiede sempre il perché delle cose. Ma tutti gli chef che ho incontrato mi hanno aiutato a riflettere”.
“Quando sono arrivato, ho un po’ sofferto il protagonismo del patron, poi poco a poco ci siamo allineati e viene tutto naturale. Siamo una coppia felice che ha superato la sua crisi coniugale”, scherza. Ed è proprio l’ironia il collante fra i due, tanto professionali quanto scanzonati, virtuosi di quel “severe ludit” che nella città eterna è di casa da qualche millennio. Certo la cucina di Scamardella ha poco a che spartire con quella di Monosilio, di impronta più rustica sotto la patina avanguardista. Qui la stoffa è fine, la tessitura esatta, la concentrazione da scacchista. Scamardella ha più stili che trascorsi: “Amo la cucina italiana, quella francese, sudamericana e orientale. Leggo tantissimo, viaggio per sperimentare. Mi piacerebbe creare un tunnel fra la gastronomia storica napoletana e il Giappone”.
E di fatto c’è sempre una novità che bolle in pentola, magari dietro qualche dritta di Alessandro, che è un gourmet errante; vedi le polpettine takoyaki alle acciughe maturate intere o il guacamole di cime di rapa ingrassate nell’olio, che però dovrà attendere la prossima stagione invernale… “Cataloghiamo tutto, abbiamo un registro interno delle cose che facciamo e magari passano il turno. Il processo creativo ha una logica che schematizziamo e organizziamo. Mi sento l’interprete di una cucina libera, senza vincoli al repertorio o all’ingredientistica regionale. Contano il divertimento e il rispetto dell’ingrediente, un racconto della ricetta che però non va mai imposto al tavolo”. Il risultato è una cucina del divertimento riflessivo, fluida e leggera nonostante lo studio, tanto eclettica nelle ispirazioni quanto incline al pluristilismo.
Dallo scorso settembre l’offerta è ulteriormente cambiata: si prenota online e si mangia solo menu degustazione. “In questo modo tutti riescono a dare il massimo. Il lavoro è più fluido, la marginalità di errore si abbassa, il servizio è ben cadenzato, l’esperienza al tavolo standardizzata. È più facile concentrarsi sui nuovi piatti e regolare gli investimenti in base alle statistiche”.
In pratica si tratta di tre percorsi a sorpresa da 3, 6 o 8 portate (rispettivamente a 100, 140 e 160 euro, più 70 per gli abbinamenti), affiancati da una lista di “must” da cui pesca chi non vuole affidarsi. Comprende i piatti forti di Scamardella, ma anche la carbonara con la ricetta intatta di Pipero e le crêpes eseguite al tavolo dal maître Achille Sardiello. “Come un salvagente”. Per accompagnare una carta da 500 referenze stilata da Pipero e amministrata da Sardiello, che accontenta gourmet e curiosi, dove “ti puoi fare male e ti puoi fare bene” con grandi Borgogna e Champagne.
I piatti
Gli appetizer puntano sull’acidità: ci sono il ravanello in carpione con crema di nocciole e finocchietto, la polpettina di calamaro con chutney di pompelmo, lo sferico di curry e anguilla affumicata, fra le pause comfort della bruschetta con burro al limone e di “Quel porco di Pipero”, cialda di funghi al ciauscolo. “Come un destro-sinistro sul ring, per sorprendere il palato con diversi picchi e consistenze, alternando gola e viaggio”. Poi parte subito il divertimento, con un quasi omaggio a Caceres: il “ceviche” in absentia di pesce composto di melone invernale con leche de tigre dei suoi scarti al limone, profumato all’origano cubano. “Monoerba piuttosto che bouquet”. Per pane una focaccia barese e un pane da taglio affettato in sala.
L’intercontinentale Napoli-Tokyo inizia dal Chawanmushi, sorta di royale nipponica preparata con il brodo di manzo e guarnita con ‘o pere e ‘o musso, street food napoletano di nervetti, pepe e limone, più cipollotto verde e maggiorana. Piatto fresco, dalle consistenze intriganti. Poi il gioco di pollo e patate, ricordo di un viaggio coast to coast negli Stati Uniti e di un clamoroso pulled pork. Quindi la stessa tecnica di marinatura e cottura al barbecue, ma applicata al pollo, sfilacciato, condito e inserito quale farcia in una patata ratte poi spennellata di olio alla brace e fiammeggiata, più la sua salsa per una “parmentier all’ennesima potenza”. Una domenica di festa, chissà dove.
Ma Scamardella è anche altro. Per esempio, da buon napoletano, la ‘mpepata, capolavoro del minimalismo italiano di cui non tocca gli ingredienti, che però precisa attraverso le elaborazioni, in modo da complessificare un morso già gustativamente perfetto. Quindi le cozze condite con manteca di cozze, la cagliata di scorza e succo di limone, che si addensa naturalmente, la spuma al pepe e il velo di acqua dei mitili. “A Bacoli i Romani chiamavano la cozza ‘ostrica nera’. Ed è un piatto che ha segnato una nuova direzione, quello che oggi mi rappresenta al meglio”.
Ancora minimalismo italiano nei bottoni di ciauscolo, quasi un monogusto umami: dove il brodo è di manzo con poca salsa ponzu a rinfrescare e prolungare, la pasta è tutta tuorli per la callosità sul cuore liquido, dentro il ciauscolo sprigiona i suoi spiriti animali, appena temperati dal bilanciamento calibrato con una specie di besciamella ad arrotondare. “E non è stato facile trovare la quadra, in modo che l’insaccato conservasse il suo carattere, senza risultare prevaricante con le note al limite del rancido”. “Avere in carta una carbonara ci consente di divertirci con i primi”. Ecco allora la fregula cremosa come un risotto grazie alla manteca di frutti di mare, acqua di vongole e latte di cocco, senza grassi; più clorofilla di prezzemolo e polvere di lattuga di mare. Fra la Sardegna e la Tailandia, su un tropico immaginario.
Il secondo sovverte le proporzioni fra pièce e garniture: è un radicchio in osmosi di carpione speziato alla piastra, servito con salsa di vino ai frutti rossi e dadolata di animelle à l’ancienne. “Perché adoro la cucina classica, cuocere carni e pesci sull’osso, montare le salse, nappare”. In equilibrio fra amaro e dolce, acido e grasso, il morso di una carne in versione vegetale.
Il predessert ironizza sulla camomilla a fine pasto con una composizione di disco di miele, gel di limone, sorbetto di camomilla, spuma alla lavanda e boccioli sabbiati, i “piperelli”. Poi l’ultima nostalgia: 081, dessert che telefona a casa con il prefisso riprodotto in gusci di pastiera, spruzzati al tavolo di acqua di fiori d’arancio per una sensazione domestica di forno, la spuma al caffè “corretto” con gelato all’anice e gel di Varnelli, il Maxibon di caprese. Quali friandises lo chou di crema alla nocciola, i brutti ma buoni, il cucchiaino cremoso al pistacchio, le nocciole sabbiate con cacao amaro.
Indirizzo
Pipero Roma
Corso Vittorio Emanuele, 246/248/250 – 00186 Roma
Tel. +39 06 68139022
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