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Crippa Revolution: a Piazza Duomo l’orto detta il menu. I nuovi piatti 2023

di:
Alessandra Meldolesi
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copertina enrico crippa piazza duomo

Dal 2009 l’orto è per Enrico Crippa un metodo creativo e perfino un lab biennale, ma solo ora questo modus operandi viene esplicitato in un carta bianca microstagionale, denominato Seasonal Things. Ne risultano esperienze di volta in volta irripetibili, flussi di cucina pura, artigianale, ineffabile per i quali il grande chef dissemina le gemme di una creatività spontanea.

Piazza Duomo- Il nuovo menu 2023

Il ristorante


Tutto inizia la mattina alle sette, talvolta anche alle sette meno un quarto, quando Enrico Crippa mette piede nel suo lab. Camici bianchi? Provette? Pirotecniche da Nasa? Neanche per sogno. Sono quattromila metri quadrati di terra e di serra in biodinamica, dove finisce la raccolta iniziata alle cinque e fa il check finale prima di passare al ristorante. Dal 2009 l’orto di Tenuta Monsordo Bernardina è per Piazza Duomo più che un sistema di approvvigionamento, un metodo creativo: il luogo in cui la cucina prende forma secondo i ritmi e i capricci della natura. Ma solo ora il modus operandi viene esplicitato nel cambio dell’offerta, che assume la forma di un carta bianca microstagionale, segnalato sul sito dal numero di corse.



Dietro le quinte questo menu c’è sempre stato”, puntualizza lo chef. “Abbiamo la fortuna di avere tanti clienti abituali, cui ci lega l’‘amicizia del piatto’, un sentimento di fiducia. Ed è una formula praticamente inevitabile, dati i volumi non solo dell’orto, ma anche dei fornitori, che un giorno ci fanno arrivare un maialino, poi un agnello e infine qualche piccione. Impossibile coprire quasi duecento coperti a settimana. Nell’orto magari partiamo dal filare di lattuga, poi ci sono i piselli, le bietole e i cipollotti. Tutto un lavoro complesso, perché occorre controllare le disponibilità. Però molto eccitante".


"Negli anni abbiamo compiuto molte sperimentazioni, anche se alcune cose sono state abbandonate perché non erano replicabili. Come gli errori: a volte l’andamento climatico può indurre uno sviluppo anomalo dei vegetali, allora o butti tutto o ti inventi qualcosa per un paio di servizi, ma sai che non succederà più, neanche a volerlo. Le novità le pianifichiamo una volta l’anno, quando stabiliamo le tempistiche delle semine. Ma lavoriamo sempre un anno su due, nel senso che prima facciamo la prova su un fazzoletto di terra, vediamo come cresce il vegetale e testiamo qualche ricetta; l’anno dopo, se tutto va bene, entra in carta”.


Il risultato di questo Lab contadino sono 120 varietà piantate, alcune a riposo; al pass una ventina di fiori e oltre sessanta erbe. Enrico le chiama per nome, un po’ botanico, un po’ poeta di fede pascoliana, preoccupato di quell’“errore dell’indeterminatezza per la quale, a modo d’esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i romolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore di indeterminatezza che si alterna con l’altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo), tutti gli uccelli a usignolo”. Non a Piazza Duomo.


È una scienza della sensibilità in cui rivive la lezione di Michel Bras, maestro di lavoro sartoriale sul singolo ortaggio, peraltro mai vegetariano. Mentre da Marchesi discendono la filosofia, la pulsione artistica, la coreografia; da Christian Willer l’organizzazione, per cui nessun gesto va a vuoto. Poi c’è il Giappone, che significa liturgia dell’ingrediente vivente, spontaneità, impermanenza. “Ma io non lavoro mai su niente di particolare. Come tecniche spadello o friggo, o faccio bollire. Non ho nemmeno il tempo per mettere qualcosa sottovuoto. Quando arriva l’agnello, porziono, rosolo ed è già finito. Poi se lo taglio ed è perfetto, rosa, succoso, i ragazzi intorno si emozionano".


"Mi piace cambiare coreografia, magari dopo un mese giro il piatto, trovo come disporre una foglia cosicché si veda nel modo giusto. Alcune erbe sono piccolissime: si trovano dentro il ciuffetto, che separiamo in grandi, medie e piccole. I fiori di phlox, dopo averne buttati tanti, ho capito che vanno tenuti rovesciati sulla carta umida, in modo che non si chiudano; quelli di borragine nell’acqua, come ninfee. Ogni giorno carichiamo un furgoncino di roba: pulisci, spulcia, guarda l’insetto, togli la terra, taglia il germoglio, sciacqua, tira su, risciacqua, controlla se è scappata una radice. Tanto lavoro che però fa la differenza”.


Il carta bianca dell’orto non sarà comunque l’unica formula: oltre al menu Barolo, pensato per l’abbinamento, e al percorso dedicato in stagione al tartufo bianco, ci sarà una miscellanea di signature altrettanto stagionali. “Per esempio i gamberi con le ciliegie, le zucchine al verde, l’agnello alla camomilla… Ricette che non mi stancano, perché durano poco: anzi ho sempre voglia di riprenderle, perché mi emoziona rimetterci mano e verificare che l’equilibrio sia perfetto”.

@Marina Spironetti




Seasonal Things, allora. L’esercizio di eterotopia si sviluppa come una sequenza di tredici assaggi, talvolta piatti singoli, talvolta composti, orizzontali o verticali “senza schemi”, menzionati per via di un unico lemma, che può essere ingrediente o preparazione. Immancabilmente autografici, artigianali, ineffabili nell’armonia di una cucina pura, capace a tratti di spiazzare per le sue gemme di creatività, spontanee ed effimere come frutti e fiori, tanto sono restie alla concettualizzazione e rischiano quindi di passare inosservate. A segnalarsi sono l’apertura al mondo, oltre il Giappone, e una crescente tendenza tutta marchesiana alla sottrazione, dopo il proliferare dei primi piatti, fedeli al paradigma dell’insalata. Difficile, forse impossibile mangiare in giro qualcosa di più buono. L’emozione a tratti è quella di essere riammessi in un eden di sensazioni perfette, quel giardino piantato da Dio che da oltre due millenni rappresenta per il mondo occidentale il paradigma di ogni possibile felicità e la posta in gioco di qualsiasi sogno rivoluzionario. È la cucina che rimette piede nel Giardino.


I piatti


La prima battuta è il gingerino di Foie gras, corda tesa fra nord est e nord ovest, lusso e pop, dove la bibita di Recoaro, sinonimo di aperitivo al bar, avvolge in forma di spuma un cuore cremoso di fegato grasso francese con éclats di mais croccante e una grattata di scorza di mandarino, fiori e germogli, per una duplice vibrazione amarotica squisitamente bilanciata. Poi il Krapfen al nero di seppia, sifonato nello stampo sferico, con crema di latte affumicata all’aringa, Caviale, erba cipollina e fiori di borragine. Total black o quasi. E il Tako yaki, tipicità di Osaka: sorta di crocchetta di impasto lievitato ripiena di gambero, al posto del solito polpo, e condita con maionese e salsa okonomiyaki, sesamo e wasabi in polvere. Tre mondi gustativi tanto lontani quanto coerenti nella tessitura in bocca.


Il crudo, tuttavia, deflagra velocemente, secondo la scuola kaiseki per cui prepara al pasto. C’è la magia del Giardino nel Sorbetto di foglie di senape e scarola bollita con aceto e salsa di senape, accostato a fave alla santoreggia con acqua di zenzero in agrodolce, burrata appena picchiettata al coltello, fiori e foglie piccanti. Dove il concetto è quello innovativo del sorbetto condimento su una materia praticamente intatta; mentre altrove la sua funzione torna quella classica di spezzare, ma all’interno del piatto, fra un boccone e l’altro. “Il segreto con le verdure è raccoglierle e trasformarle quando sono ancora piene di succhi e grondanti di rugiada”. È il caso della ficoide, pianta sudafricana che qui è disponibile in primavera, prima che vada in fiore, e poi in autunno, prima del freddo.

Ficoide con branzino



Colta e servita, inonda la bocca di succhi sapidi, dolci, leggermente aciduli che non necessitano praticamente di nulla. Appena un tocco di limone confit battuto in citronette e un giro di pepe. A fianco, per un confronto di crudità che è anche una similitudine fra Perù e Giappone, il ceviche di pesce bianco, orata o branzino bretone ikejime, tagliato fine come vogliono i maestri di sushi, al punto da fare intravvedere il disegno del piatto, con erbe microscopiche, uno shot di succo delle foglie grandi di ficoide, dolcissime, e una cialda di mais al guacamole, tipo leche de tigre. Magistrale poi il Carpaccio di Ricci di mare, o capriccio, che rispolvera lo schema dell’impiattato orizzontale a mo’ di quadro, tanto caro allo chef, che già lo applicò anni fa alle foglie di bieta. Dove la base è una gelatina di pomodoro acidula, di cui si raccoglie l’acqua rilasciata prima in padella, poi al forno; sopra si dispongono le scaglie di ricci abbattuti e passati nell’azoto liquido, “come un pavimento alla palladiana”, schizzi di salsa di pecorino, tipo bernese, e vinaigrette di cipolla alla brace.

Carpaccio di riccio accompagnato da cialda di furikake e sorbetto di mandorla e polvere di caffè



Un’idea ispirata ai racconti dei ragazzi pugliesi in brigata, che spezzano le degustazioni di pesce crudo con brani di formaggio, per aiutare lo stomaco con il lattosio e per un ring di sapidità, che non fa calare la tensione. Più la cialda di farina di mandorle, sesamo, wasabi e alga nori tostata sulla piastra al cromo, per simulare il guscio del crostaceo, e il refresh di sorbetto alla mandorla fresca con polvere di caffè, sale alla vaniglia ed erbe. Piatto ficcante, che buca occhi e palato. Viaggia lontano la Lattuga romana alla brace con salsa “chimichurri” di peperone rosso alla paprica affumicata, riduzione della sua acqua, accanto un’aletta di pollo o faraona arrosto al suo sugo e una cialda di grissino sbriciolato, spezie, semi di finocchio, mandorla e nocciola tostata.

Lattuga romana alla brace



Ma il piatto del percorso, secondo Crippa, è Zafferano, quasi un risotto in absentia, dove i chicchi sono sostituiti da piselli mignon che rotolano in bocca. Si tratta in pratica di una base di riso giallo tradizionale che viene frullata e va a legare il vegetale appena cotto per riduzione in poco brodo, poi mantecato con burro fresco, acido, Parmigiano e pepe nero.Un ricordo d’infanzia: vedi i piselli e in testa hai il risotto. Forse il piatto meno coreografico di tutti”. Ed è a questo punto che arriva il pane, insieme alla Seppia in forma di crespella di polpa frullata, cotta al vapore e finita sulla graticola, condita con vinaigrette piccante allo yuzu kosho e purea di mela ad arrotondare; a fianco polenta bianca e salsa di seppia al nero per uno sguardo sulla cucina regionale. Un piatto di temperamento, che stacca dall’untuosità del pisello e prepara a un pesce grasso.

Seppia




La Sogliola è spadellata velocemente e servita con asparagi cotti per riduzione in un goccio del loro brodo, salsa di ritagli con foglie e buccia di limone montata al burro, per un ricordo di mugnaia, basilico rosso, thai, greco e shiso, dai sentori di anice, limone e menta. Dove l’idea è quella della sinergia fra agrumi ed erba di uno spaghetto al limone sulla Costiera Amalfitana. Idea di spaghetto che si incarna nella matassa Mancini con purea di foglie di aglio orsino, raccolte nelle montagne del Cuneese o del Torinese ai primi di aprile, frullate a caldo, congelate e usate per condire anche il riso con qualche fiore. “Qualcosa di molto puro, nato in lockdown, quando non potevamo lavorare”. Un altro giro di vite nella tendenza alla sottrazione, che segna il crescendo del menu.

Spaghetti Mancini alle erbe e aglio orsino



Che quelle di Crippa siano mani divine, almeno quanto quelle di Maradona, lo conferma il Germano reale (ma potrebbe essere piccione, agnello o podolica) spadellato al burro, fiammeggiato al Brandy e sfumato al Marsala, servito con purea di Bietola barese, le cui foglie carnose si trasformano in velluto, e coste condite con riduzione di aceto, cipollotto e aglio, per un ricordo di verdure strascinate. Dove la “complicità” fra pièce e vegetale, nella massima semplicità, ha qualcosa di miracoloso.

Germano Reale



Chiudono i Piselli. “Amo i dolci giapponesi, con composte, frutti, profumi, gelatine. Ma in Italia il dolce deve essere più ricco”. Quindi la base di biscotto al tè verde con cremoso di purea di piselli alla panna, piselli semicanditi, purea schietta e scaglie di cioccolato bianco al matcha sotto sembianze di guaine vegetali, più il sorbetto al lime per sgrassare.

Piselli



Foto di Letizia Cigliutti

Indirizzo


Ristorante Piazza Duomo

Piazza Risorgimento, 4- angolo Vicolo dell’Arco 12051 – Alba (Cn)

Tel. +39 0173 366167

Sito Web

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