“Fare le cose per bene è molto caro”, ammonisce Kamilla Seidler, chef di Lola a Copenaghen. Dai suoi trascorsi ha imparato che la cucina può essere il motore del cambiamento. “Abbiamo il certificato dell’impronta di carbonio e ci costa moltissimo. Un piccolo ristorante non se lo potrebbe permettere”.
La notizia
Recentemente premiata quale migliore cuoca dell’America Latina da The World’s 50 Best, la danese Kamilla Seidler non è un’improvvisata: si è guadagnata i galloni da chef sgobbando presso santuari come il Mugaritz, Le Manoir aux Quat’Saisons e il Geranium, prima di sfondare in Bolivia. Qui era stata convocata nel 2012 da Claus Meyer, cofondatore del Noma, affinché prendesse parte col collega venezuelano Michelangelo Cestari al progetto Melting Pot, mirato a offrire nuove opportunità professionali a persone a rischio di esclusione. Era la cellula di Gustu, ristorante di alta cucina comprendente una scuola con finalità sociali, da cui si sarebbero a loro volta originati i ristoranti degli allievi, facendo fiorire la gastronomia nazionale.
Tornata in Danimarca nel 2019, Seidler vi ha fondato il suo Lola, senza dimenticare la lezione boliviana. “Ho capito che la cucina può essere il motore del cambiamento, dalle opportunità professionali all’impulso conferito alle produzioni e al turismo”, dice. “L’idea era avere una piccola scuola con una caffetteria o un bar, in cui fare pratica, poi l’abbiamo ampliata con Gustu, dove è proseguita. Siccome non potevamo tenere sempre molti studenti, siamo tornati all’idea di collocare piccole scuole nelle zone rurali, dove vivono i ragazzi. Spazi dove si servissero pranzi e si potesse parlare di cucina sana e prodotti locali”. Un’esperienza di successo, che è stata replicata in Colombia e in Marocco.
Poi c’è la fondazione danese Fair Fishing, che supporta i pescatori somali, insegnando loro come conservare, trasformare e vendere il prodotto. Con il suo concorso si è creata una rete commerciale al femminile e lo stesso modo di alimentarsi della popolazione è cambiato. Piccoli gesti da cui sono scaturiti progetti importanti. “I ragazzi vogliono imparare, diventare professori, conoscere come si pulisce o si taglia un pesce. Appena dai loro un coltello, iniziano a insegnare alla madre, è bellissimo”.
L’impegno prosegue da Lola, dove c’è posto per lavoratori a rischio di esclusione, con precedenti penali o difficilmente occupabili. “Sono persone che quando si sentono parte di una squadra, danno tutto. Non avranno vent’anni di esperienza in cucina, ma con la giusta voglia e motivazione, chi vuole, può. È stato fondamentale per noi”. Un altro punto fermo è che l’ambiente di lavoro non sia tossico: niente grida, niente sessismo o razzismo, niente sfruttamento. “C’è chi lascia perché il lavoro è troppo, non si sente a suo agio con l’ambiente, oppure desidera un figlio e in quelle condizioni è impossibile. Per questo credo che stiamo perdendo molti talenti. Ma se non manteniamo vivo l’interesse delle nuove generazioni, resteranno solo i robot. E sono cambiamenti che hanno un prezzo.
Se vuoi mangiare un piatto preparato da 20 persone in 80 ore, deve costarti mille euro. Perché anche quelle persone hanno una vita, vogliono andare in vacanza e godere infine di una pensione. Perché l’alta cucina dovrebbe avere un prezzo pagato dal lavoratore e non dal consumatore? Il successo sta nella felicità della squadra”. Certo alzare i prezzi è un rischio, ma di fatto i costi sono schizzati e anche la sostenibilità incide: “Abbiamo il certificato dell’impronta di carbonio. Costa moltissimo e una piccola impresa non se lo potrebbe permettere. Fare le cose per bene è molto caro”.
Fonte: Siete Canibales
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Foto: @Lola