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Parkour Marchini, la sfida dell' Erba del Re

di:
Alessandra Meldolesi
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Fra gli chef più discussi del panorama italiano, Luca Marchini ci piace. Per la cerebralità mutuata da Massimo Bottura, l’intransigenza nel perseguire uno stile proprio, il coefficiente di rischio fra i più alti d'Italia.

La Storia

La storia di Luca Marchini


è un’erba spontanea, croccante, zeppa di linfa e clorofilla, quella che alligna nella penombra di un bel palazzo nel centro medioevale di Modena. Muri robusti nella trama fitta e sghemba del ghetto ebraico, dove da 10 anni va in scena la rivoluzione fitomorfa di Luca Marchini, cuoco non cuoco secondo una feconda tradizione regionale.


Aretino di nascita, emiliano di adozione, poco più che quarantenne e già papà di tre figli, Luca è passato con l’incoscienza della vocazione dai banchi di Economia e Commercio agli spogliatoi dei ristoranti gourmet senza che il suo talento perdesse di luccicanza smeraldina o di turgore dissetante. Acquistando piuttosto la sicurezza tecnica e il rigore concettuale indispensabili alla messa a fuoco delle sue intuizioni, talvolta di bella gittata. Sempre ardite e personali nella ricerca di armonie inusitate.


Il curriculum snocciola i nomi di Massimo Bottura, Bruno Barbieri, Jean Louis Nomicos. Monumenti della cucina ingombranti, sui quali il suo sogno è rampicato con i viticci verdi della curiosità. Fino al 2003, quando è spuntato appunto in via Castel Maraldo, per essere presto irradiato da una longeva stella Michelin.


Ma accanto alle salette calde del ristorante (cui si accede passando per un salotto da cui occhieggia la finestrella di una cucina a vista), oggi c’è anche la scuola di cucina Amaltea. Un’ulteriore maglia per incernierarsi nella città, che sembrava già occupata nel monopoli del gusto e invece no, ha abbracciato anche il nuovo indirizzo.


 

I Piatti

Il territorio del resto non manca. In carta ci sono i classici (la selezione dei salumi, le tagliatelle al ragù, i tortellini, la cotoletta alla bolognese, risorta alla ristorazione qua e là dopo un lunghissimo oblio), ma soprattutto le sirene identitarie di una manciata di ingredienti, primo fra tutti il Parmigiano. Utilizzato quale umami ante litteram e ante chymicam, per insinuare le seduzioni subliminali del comfort food come un contravveleno bianco nella deregulation fisiologica dell’avanguardia.


Perché quella di Marchini è una cucina votata innanzitutto all’eleganza e all’ésprit de finesse, fatta di piccoli tocchi che catalizzano reazioni imprevedibili. Ciò che rifugge sono le facili geometrie di una tavola suicidata dagli eccessi euclidei, gli schematismi ingessati degli equilibri gustativi (grassezza versus acidità, dolcezza versus amaro e così via), le ossificazioni degli a priori gastronomici contro il coraggio e la responsabilità della scelta.


Chi non opta per il menu della tradizione, i piatti storici della casa, il menu vegetariano o la carta riceve il degustazione “Espressioni”, che mette in sequenza dieci creazioni di stretta attualità gastronomica. Si comincia con un tris di stuzzichini ironici (la finta oliva, la cialda di polenta, la pralina di spritz), pantomima degli aperitivi sui banconi dei bar della movida. Understatement, insomma.


Ma si entra nel vivo con la serie degli antipasti, portata favorita dello chef: la piovra dai tentacoli tostati, quasi brûlé, accompagnata da spugnole, prugnoli, delicata maionese dell’acqua di cottura ridotta (un concentrato di proteine emulsionanti) e piccoli punti di purè di patate allo yogurt per la nota acida; la sorprendente anguilla cotta sottovuoto e spruzzata di tequila cruda, dove l’alcol è chiamato a sostituire il tic acido nel bilanciamento delle note grasse e gelatinose, ricalcate in un gioco ridondante dalla salsa terragna di barbabietola, dal condimento di mandorle e fondo di cottura, dalla spolverata di cioccolato bianco tostato; il cervo marinato nel liquore secco di cacao (per il sottobosco terragno) e scottato in stile shabu shabu con lamelle di indivia, salsa di mirtilli e taccole, evoluzione di abbinamenti sempreverdi che scatena un gioco minerale lunghissimo. Dove la ricerca gustativa si va appunto precisando nel senso di gusti monografici che trovano il proprio baricentro in se stessi. Costellazioni dolci o amare regolate da leggi proprie sul margine aleatorio del gusto. Anche a livello testurale, nel solco e persino oltre (in questo caso) Paolo Lopriore.


Il risotto di ostrica con erbe anisate su crème brûlée di liquirizia contamina un topos botturiano con la verticalizzazione della portata ad opera di Massimiliano Alajmo, configurando una mantecatura espressa lungo la quale corre la sinergia sapida-amara come un’elettricità. Mentre il merluzzo nero, di cui si tesaurizza la gelatinosità, sposa il caramello di aceto di lamponi, la quinoa fritta, gli agretti alla birra e la maionese del suo fondo di cottura.


Sorprendente, ancora una volta, il filetto di bianca modenese lungamente frollato servito con stracciatella, un velo di burro di acciughe, vellutata lenta di cavolfiore con gocce di centrifugato delle sue foglie. Un abbinamento inconsulto che gioca di fioretto sulle note lattiche della fermentazione carnea. Di eleganza assoluta.





Ma una menzione speciale va ai dessert: la chibouste al cardamomo affumicato, quasi un graffio di sigaro in gola, il millefoglie di amaranto con crema al tè nero e gelato di rabarbaro, soprattutto (ma non sempre si trova) il puntinismo. Dessert geniale e miliare nell’accumulazione anti-minimalistica di ingredienti quantici, sorta di elettroni trascinati lungo ellissi mutevoli in una danza sfrenata. Dove il lavoro di sottrazione toglie di mezzo tout court ogni struttura (né biscotto né cialde, e neppure una quenelle di qualcosa), configurando una pasticceria anarchica, complessa e quasi invertebrata.


 

 

Indirizzo

Ristorante L'Erba del Re

Via Castel Maraldo, 45 - 41121 Modena

Telefono: +39 059 218188

Mail: ristorante@lerbadelre.it

Il sito web del ristorante L' erba del Re

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