I fratelli Barsotti sono giovani e intraprendenti: Lorenzo propone una cucina ben equilibrata fra gusto e tecnica, evoluta ed anticonformista. Mentre Francesco, sommelier, si occupa di sala e cantina, con una grande passione per il pinot nero.
La Storia
I Frattelli Barsotti
Attenti alla banda barsotti: a una manciata di chilometri da un altro tandem di fratelli eccellenti, Aurora e Massimo Mazzucchelli, Lorenzo e Francesco Barsotti hanno nascosto in una stradina di paese, al piano terra di un anonimo condominio, il tesoro di una cucina che non ti aspetti: giovane, evoluta, anticonformista, in equilibrio felice fra gusto e tecnica.


Alla farfalla forse va un po’ stretta la crisalide, che ha tutta l’aria di un bar di paese, ingombro delle casse di vino accumulate nella sala, fra cimeli d’antan, banconi in legno e tovaglie a quadri. Un ambiente dimesso, forse un po’ troppo, che tuttavia può ricordare leggendari ircocervi della ristorazione emiliana: la bottega di Peppino Cantarelli come la Locanda Mariella, dove i trattoristi facevano sosta per stappare una bottiglia di Dom Pérignon in accompagnamento al giusto piatto di salame.

Non a caso la cantina è di tutto rispetto: 400 etichette assemblate da Francesco, che come sommelier si è formato all’AIS e soprattutto da solo, in famiglia come girando per cantine. Tanta Francia, anche quella insolita della Loira e del Jura. Soprattutto piccoli produttori, per il thrill della scoperta e anche per calmierare un po’ i prezzi, che si mantengono sempre su ricarichi accettabili. Il pallino è il pinot nero, che sia francese o italiano, fermo o spumantizzato, con una predilezione per Podere Fortuna. “Da bambini la nostra merenda era pane, vino e zucchero: mio nonno era il fattore dei Guicciardini Strozzi, quindi siamo cresciuti in mezzo alle botti”, racconta Lorenzo. “Poi si trasferì a Prato dalla famiglia Franchi, dove fin da piccoli abbiamo passato l’intera estate. Respirando tutti i riti contadini: si faceva l’olio, si allevava e si mangiava di tutto, oche, galline, maiali, conigli. Impossibile dimenticare l’uccisione del maiale, con quel fiotto di sangue caldo, o le galline cui veniva tirato il collo prima di essere spennate. Ma mio nonno era anche guardiacaccia e cacciatore, quindi colombacci, beccacce e tordi erano pane quotidiano”.

Dal 2010, anno di apertura, la proposta gastronomica è cambiata più volte.
La partenza è avvenuta con il freno tirato: battuta di carne al tartufo e tagliatelle, ma col ragù al coltello; una cucina di schietta impronta toscana (i Barsotti sono originari di Prato), solida, materica, per nulla svagata. Poi la voglia di riprendere il filo di platino delle esperienze pregresse. Perché Lorenzo, che compirà fra pochi giorni 30 anni, dopo l’alberghiero ha messo insieme un curriculum di tutto rispetto, nel quale spiccano la Locanda dell’Angelo di Paracucchi, di cui è stato chef, e il Celler de Can Roca, dove ha lavorato nel 2010, anno zenitale per la creatività di Joan e Jordi. Restandone folgorato per sempre.
I Piatti

A Marzabotto è stata quindi la volta di un’avanguardia dura e pura (per esempio il risotto con aringa, capperi e caffè o la royale di lepre “sui generis”), che al nostro passaggio si era già stemperata nell’aria frizzantina dell’Appennino. Ricerca sì, materia tanta, gusti generosi e mai banali, senza però l’esigenza di épater le gourmand. Gli ingredienti sono pregiati (selvaggina da abbattimento selettivo, carni della macelleria Savigni, pesci del Tirreno, ortaggi a km zero provenienti da diverse aziende agricole, erbe spontanee raccolte nei paraggi), gli accostamenti ricercati, le cotture quasi sempre puntuali (Lorenzo è spesso solo in cucina), i gusti ricchi e carichi di colpi in canna.


Qualche esempio? L’equilibrata capasanta tostata con purea di patate viola, ostriche battute e aria di rabarbaro (inteso come radice e non come fusto); la soave tartare di tonno rosso con latte di pinoli e prugne; il classicheggiante millefoglie verticale di foie gras d’oca in terrina con albicocca e Porto: piatti eclettici e stimolanti, forse un po’ carenti di acidità, complessi eppure affatto velleitari.

Fra i primi spiccano i tortellini di capocollo di cinta senese in brodo di maiale al sangue, con dadi di mortadella tostata e coriandolo. Eccellenti per il confezionamento (la sfoglia è stesa al mattarello da una sfoglina della zona), nuotano in un crogiolo fusionale, dove le reminescenze della norcineria toscana agganciano le forme topiche del territorio. Quindi sangue, coriandolo, tagli poveri e la mortadella (quella bolognese) tostata per la consistenza sotto i denti.


Fra i secondi l’ardita rana pescatrice a bassa temperatura con bottarga di cozze (ovvero mitili essiccati e frullati alla Frank Rizzuti), liquido della trippa sfumato all’aceto e trippa di vitello, piatto di testure tenaci e spugnose, quasi una similitudine mediata dall’olio leggermente affumicato, in omaggio alla tradizione dei trippai fiorentini; nonché l’ottimo germano, intensamente selvaggio, scortato da cavolella e scalogni al Moscato.

Menzione speciale per il dessert: la torta di mele con lardo e lamponi incastra con schiocco sonoro sul comfort dessert per antonomasia la chiffonnade di un crostino al lardo, reminescenza toscana che sa anche di Trentino grazie all’abbinamento del maiale con i pomi. Giacché dietro ogni piatto c’è un pensiero, ad ogni gusto è sotteso un percorso mentale.

Difficile imbattersi altrove in una coincidenza oppositorum altrettanto centrata, forse solo da Caino: in tasca il mazzo voluminoso delle chiavi per la serratura della memoria arrugginita, grazie alle matrici contadine e al senso dell’ingrediente; in testa pensieri, tecniche e modus operandi della più ruggente contemporaneità.

Insomma una coppia da tenere d’occhio. Giù dalla discesa di Marzabotto in surplace, aspettando lo scatto vincente verso l’alta ristorazione.
Tutte le fotografie sono di Salvatore Santoro
Indirizzo
Trattoria Enoteca BarsottiVia Vittorio Veneto, 3/B - 40043 Marzabotto (BO)