Piccolo e spicy: è il Grano di Pepe di Rino Duca. Un’osteria che ha portato una zaffata di iodio fra i caseggiati dell’hinterland modenese. - La foto di copertina è di Enrica Gilli -
La Storia
La storia di Rino Duca
Cum grano piperis, è proprio il caso di dirlo. Il locale che dal 2008 spezia l’hinterland di Modena è piccolo ed esplosivo sotto i denti, come una bacca rotolata lungo la via delle spezie. Ai piedi di un caseggiato in una strada di paese, le lunghe vetrate schermate dalle tende davanti a una trentina di coperti, è la novità che non ti aspetti nella monotonia orizzontale della Bassa. Al probabile inizio di una parabola ascendente nel suo cantiere gastronomico in progress

Rino Duca vi ha traslocato un pezzetto della sua Sicilia, lui che è nato ad Enna ed è cresciuto a Palermo in una famiglia contadina. Origini che ama ri-cordare, cioè far passare dal cuore, nei colori della Vucciria e di Ballarò, dove faceva spesso la spesa; nel gusto vivido della caponata di melanzane o della pasta con le sarde della mamma, che riaffiora fra i flutti del menu. La sua Sicilia però non ha niente dello stereotipo barocco e pittoresco cui siamo abituati: si presenta piuttosto geometrica ed epurata, scolpita per sottrazione in una simplicitas tanto classica quanto pienamente attuale. Quasi che i tre vertici della Trinacria si proiettassero con la squadra e il righello direttamente sul candore del piatto.

Non sono mancate le digressioni, tuttavia, prima che la nostalgia iniziasse a pippare dalle casseruole. Praticamente autodidatta, a parte il diploma conseguito all’Alberghiero con le stagioni del caso, prima di riallacciare il grembiule Rino Duca è stato studente in Scienze Politiche, educatore appassionato presso comunità di recupero e con i carcerati. A risvegliare la passione sopita è stata la frequentazione di un cuoco dell’Ambasciata di Quistello; e poco dopo ha preso il via la collaborazione in veste di cuoco con una scuola di formazione professionale.

Altro incontro karmico è stato quello con Fulvio Pierangelini, in occasione di un pranzo con la scuola: “Mi considero suo allievo per l’artigianalità del mestiere. Non posso dimenticare il branzino con crema di cavolfiore e carciofi o il velluto della passatina, la sicurezza di cui dava mostra senza alcun bisogno di ostentare. Sul piatto potevano esserci tre elementi, ma era la sensibilità della sua mano che faceva tutta la differenza”. E ancora lo stage nelle cucine di Mauro Uliassi, cui la carta rende omaggio con le tagliatelle di seppia con fegato e aglio, prezzemolo cetrifugato, funghi pioppini in polvere e pane al nero.



Il centro di gravità permanente lo trova nel 2008 al civico 178 di via Roma, dove è in affitto un ristorante, sul quale investe tutti i suoi risparmi. Vi installa anche la scuola di cucina pop-up, che vagabondava da un agriturismo a una tavola amica, e adesso insedia la sua cattedra nella sala da pranzo (ma prossimamente avrà sede a fianco del ristorante, in un nuovo spazio con tavolata degli amici che verrà inglobato dopo la ristrutturazione in agenda).


La carta naviga fin dal principio in alto mare: Rino Duca ama il pesce e ne fa il tema della sua cucina, che però è in procinto di ampliarsi a qualche piatto di carne e soprattutto alla selvaggina (“in questa zona lepri e fagiani sono una presenza quotidiana, che non può mancare di ispirarmi. Anche se la caccia locale non può essere servita per ragioni burocratiche”). Per quanto riguarda il pesce, l’approvvigionamento viene curato dallo chef all’asta di Porto Garibaldi, più qualche integrazione in arrivo dalla Puglia e dalla Sicilia. “Sebbene il pesce dell’Adriatico sia un po’ diverso da quello con cui sono cresciuto. Ha una diversa sapidità e una diversa grassezza, a causa della composizione e della temperatura delle acque, che hanno fondali più bassi”. Le stesse verdure sono in gran parte locali, mentre le erbe aromatiche crescono nei vasi dietro il ristorante.

I Piatti
Subito dopo il prodotto c’è la riflessività, che porta Rino Duca a studiare i nuovi piatti per mesi prima di metterli in carta. Cum grano piperis, dicevamo, ovvero senso della moderazione ma anche un tocco di follia. Colorata, esotica, euforizzante; che si tratti della piperina agrumata del pepe di Timut, provvidenziale sul gambero crudo con perle di pompelmo, o del pepe di Sichuan sulla tagliata di scottona.


La catalana cruda stende sull’integrità dello scampo il classico condimento composto di pomodoro e cipollotto, alleggerito dalla mancata cottura e dall’aggiunta di frutta fresca di stagione, in questo caso pera. Mentre l’insalata di polpo con spuma di patate affumicate, tenuta in caldo nel sifone, polvere di capperi per la nota senapata e pesto di alghe (altro omaggio a Uliassi) tecnicizza e rielabora un piatto della memoria. Altrettanto nitido il canovaccio che ispira gli spaghetti Verrigni ai ricci di mare, parzialmente risottati con l’acqua di pomodoro per rilevare l’acidità e impreziositi dall’extravergine Pianogrillo Particella 34; o le linguine al nero di seppia, personalizzate da un olio essenziale a base di agrumi di Ciaculli ottenuto per infusione sottovuoto, che rinfresca il condimento.




Il tonno alla palermitana opera la traslazione di una ricetta della terra al mare: non si tratta infatti di una bistecca, ma di un trancio condito nello stesso modo, scottato e scaloppato. Siciliani anche i dessert, fra cui figurano cannoli, cassata, sorbetti agli agrumi e granite. La carta dei vini è in via di ampliamento, dallo zoccolo dei bianchi siciliani ed emiliani in direzione Francia, rossi compresi. Ben rappresentati i vignaioli “naturali”, su tutti Occhipinti, Dettori e Gravner.
Indirizzo
Osteria Il Grano di Pepevia Roma 178/A - 41017 Ravarino (MO)