Ristoranti di tendenza

Atavismi, avanguardia e un Giappone da camera: il Sud contro i cliché di Giuseppe Iannotti

di:
Alessandra Meldolesi
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giuseppe iannotti copertina 970

Nell'entroterra campano un giovane solista disegna il punto di fuga fra tecnologia e natura, Mediterraneo e giapponismi.

La Storia

La storia di Giuseppe Iannotti


Il volto bruno solcato da pennellate verdastre, inciso dagli occhi lunghi sotto i capelli neri; per sfondo una campitura piatta e gialla su cui si staglia la geometria variopinta del vestito, lineare come il kimono di una geisha inginocchiata. È l’Italiana di Vincent Van Gogh, esposta al Musée d’Orsay; eppure parrebbe figlia del Sol Levante. Dipinta quando correva l’epoca del giapponismo, voga che ispirò generazioni di artisti che oggi calcano la toque e brandiscono il coltello, senza distogliere lo sguardo da Oriente. Per esempio Giuseppe Iannotti, che ha portato con sé quell’Italiana in una cucina del Sannio. Occhi a mandorla e colori mediterranei in una fusione a tutti gli effetti naturale.

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Il Kresios è una cattedrale inaspettata nella distesa dell’entroterra campano. Appena fuori da Telese, un locale polifunzionale che sembra planato come un astronave da qualche metropoli lontana. I passi vagano per l’atrio, destinato ad accogliere un american bar, l’enoteca e la gastronomia prima di arrestarsi di fronte ai tavolini nudi del ristorante gastronomico. Con la finestrella della cucina a vista che ritaglia l’affaccendarsi frenetico della brigata e la grande cantina climatizzata al piano interrato. Fuori è tutto un altro ossigeno: la campagna è quella di famiglia, con i filari vitati di barbera del Sannio e falanghina, l’orto profumato di lavanda e le gabbie degli animali di bassa corte, conigli, galline, polli, tacchini. Su un altro lato del vecchio casolare si distribuiscono ordinatamente oltre cento varietà di erbe aromatiche, pronte per le incursioni dei cuochi durante il servizio. “Ma sono fra i pochi chef sordi alla retorica della contadinità e del chilometro zero. Perché il fabbisogno di un ristorante è troppo mutevole nei volumi e nella composizione per essere coperto in proprio, senza che la cucina ne risenta”.

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Eppure è su queste zolle che Iannotti ha mosso, letteralmente, i primi passi di una maratona che ha tagliato i 32 anni di età. A sudarci era papà Raffaele, titolare di un’azienda agricola estesa su 12 ettari; mentre mamma Elvira calcava nell’ippocampo l’imprinting dei sapori del sud: “Solo il meglio, dal pane fatto in casa alla carne presa in montagna. Nasce tutto da lei e da quell’alimentazione primordiale, la cultura del maiale e delle conserve, il pomodoro, le marmellate. Oggi segue l’orto; sono appena arrivate 96 piantine nuove e studia con me dove piantarle per farle riprodurre. Mio fratello Roberto invece è enologo in Australia. Il tassello finale del mio progetto è una produzione vitivinicola di qualità che affianchi la ristorazione. Ma è presto per dire come la imposteremo, per ora ci limitiamo a conferire le uve. Il mio bisnonno vinificava nei tonneaux di castagno ed era solito dire: ‘Quando il vino sa di legno lo devi buttare’”. Neppure la norcineria è stata accantonata: oggi come ieri, Raffaele nel mese di dicembre ammazza il suo maiale e procede alla stagionatura dei salumi. “La sugna che utilizzo nel ragù, per la pasta brisé o i taralli è nostra, impossibile trovarne di altrettanto delicata”.

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Gli studi però dissodano altri campi: dopo il liceo scientifico ci sono le aule di ingegneria informatica (alla laurea mancano appena quattro esami), frequentate mentre la passione culinaria cresce, al costo di lavare i piatti in qualche bettola per potersi permettere un grande ristorante, ad esempio Aimo e Nadia. “Ma una ricetta in fondo è come un software”, commenta oggi Iannotti. “Una sequenza finita di passi che portano a un risultato. In questo caso un piatto”. Nerd come ogni autodidatta, all’hardware delle tecniche ha invece provveduto attraverso studi solitari e un unico stage, compiuto nel 2014 da Alinea a Chicago: “Non ho mai voluto fare questo tipo di esperienza, per tema di venire etichettato come ‘allievo di’. A Chicago sono andato piuttosto per cercare di capire come si guida una Ferrari che va a 300 all’ora, visto che il ristorante è occupato al 99%, con una brigata di 70 persone e uno chef impegnato in diverse realtà. La sua cifra è la teatralità: un effetto wow dovuto alla coreografia del servizio oltre che a tecniche particolari, come il cuscino che si muove o il palloncino di zucchero alla mela verde pieno di elio”. Una cucina neobarocca finalizzata alla meraviglia, in stile Giovan Battista Marino, che ha lasciato poche tracce sulla tavola di quello che è a tutti gli effetti un solista.

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Nel frattempo, dopo l’esordio in un pub di Castelvenere, imbottito di eccellenze gastronomiche, è arrivato il momento del Kresios, intitolato a Dioniso. “Avevamo questo rudere di famiglia, una cascina costruita dal bisnonno, la cui cantina era stata scavata a mano da due uomini e due donne usando semplici cesti. E mi sono detto: perché no? A Castelvenere mancavano gli spazi tecnici perché potessi esprimermi; qui oltre a ristrutturare l’edificio ho disegnato personalmente la cucina”. Dopo l’inaugurazione, datata novembre 2011, a fioccare sono i riconoscimenti: giovane dell’anno per l’Espresso 2012, promessa e poi stella Michelin nel 2014. Una scommessa sul territorio rafforzata dalla consulenza presso il Boscolo Hotel di Milano con l’inseparabile Christian Milone.

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Le altre fiches sono nella mani di una brigata giovane e appassionata: in cucina i due secondi Eugenio Vitagliano e Tadashi Takayama, tramite per le suggestioni giapponiste; in pasticceria Orsola Martino; in sala recordman all’anagrafe come Alfredo Buonanno, maître, sommelier, barman, ed Emanuele Albarella, rispettivamente 20 e 19 anni. Governano una carta dei vini da 1500 etichette, che dal Sannio parte per un giro intorno al mondo, anche se l’abbinamento elettivo di Iannotti è lo Champagne. I menu degustazione sono tre, Mr Black, Mr Orange e Mr Purple, in omaggio a Quentin Tarantino. “Stavo per aprire il Kresios quando ho visto le Iene; mi sforzavo di battezzare i menu e l’ispirazione mi è venuta dai nomi di fantasia della banda. Anche perché le degustazioni comprendono piatti della carta e sperimentazioni pure, insomma sono un po’ in incognito, senza un ordine prestabilito”.

 

 

 

I Piatti

k6 Crema di carote all’anice stellato, trippa, cozze e salvia fritta<
Crema di carote all’anice stellato, trippa, cozze e salvia fritta
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Si comincia con il carosello degli appetizer, tutti fingerfood, giacché il gusto è pur sempre una derivazione del tatto, come insegna l’etimologia anglosassone (taste): la cotica soffiata con polvere di gambero rosso e pepe, che scherza con le testure e l’immaginario del junk food, mentre omaggia il territorio e la sua cultura del maiale; come la gelatina di zuppa di pesce, ricavata da un dashi che l’olio essenziale di arancia travasa in una variopinta scodella provenzale. Poi le puntarelle con latte di bufala disidratato e acciughe del Cantabrico e la bruschetta liquida sotto forma di pralina di burro di cacao, che spara in bocca un estratto di pomodoro alla Greenstar, con il pane citato da una briciola e l’aglio nero per il contemporaneismo della fermentazione. Fin dalle prime battute la cifra si colloca nella coincidenza stilistica fra orientalismi e Mediterraneo, secondo l’intuizione di Van Gogh.

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Il crudo è appannaggio di Tadashi Takayama: un piatto incentrato sulla tecnica di taglio, ancor prima che sulla materia prima, dove il wasabi è accompagnato da crema di aglio, un granello di sale, assente in Giappone, zenzero fresco, gelatina di dashi e bolle sferificate di olio. Lo compongono gambero rosso di Mazara, capasanta, salmone sockeye, mazzancolla, tonno rosso, polpo appena scottato, triglia e gambero blu. “Ogni giorno durante le pause Tadashi prova un piatto nuovo. Dopo 9 anni trascorsi al mercato del pesce di Tokyo è passato da Christian Milone prima di arrivare al Kresios. Quel che so del Giappone l’ho appreso da lui, ma adesso ho in agenda un viaggio di lavoro per una conoscenza diretta, compreso il sushi di Jiro. Poi c’è il cibo di strada di Hong Kong: mi appassiona ciò che mostra un forte attaccamento alle ritualità e alle tradizioni, che è l’origine di tutto il resto. Abbiamo allo studio anche un katsuobushi di vitello”.

k8 A tutto sgombro
A tutto sgombro è ormai un piccolo classico del Kresios, con il pesce oggi più amato dai cuochi proposto nella sua integrità. La lisca fritta, secondo l’uso ancora una volta giapponese, importato per la prima volta da Josep Mercader dell’Hotel Empordà di Figueres, apripista dell’avanguardia catalana negli anni ’70, e ripescato da Joan Roca. In questo caso non riguarda però acciughe o sardine ma un pesce la cui taglia richiede adeguamenti nella preparazione: due fritture in successione, la prima a 150 °C per eliminare l’umidità in eccesso; la seconda a 175 °C per croccantare; seguite dall’essiccazione nel disidratatore. Il crunch grasso che ne risulta trova il bilanciamento ideale nel filetto acido e pastoso, marinato (quasi) come si usa al sud, con aceto di mele e sale. Più qualche lamella di zenzero fritto, foglie di melissa e chicchi di pepe. Un altro gioco di specchi fra Mediterraneo e Giappone dalla struttura ingegneristica, come vuole la formazione del suo autore. Dove si sgranocchia anche la testa, che collega l’atavismo dei tanti cervelli bolliti o arrosto delle nostre tradizioni alla “cucina della crudeltà” di matrice nordeuropea oggi egemone nello scenario internazionale.

k9 Lingua di bue cotta per 80h con salsa di pappacelle napoletane
Più tecnica, anzi tecnologica, come si conviene a uno chef dalla cucina super equipaggiata, la lingua di bue marinata con erbe e spezie, poi cotta sottovuoto per 80 ore a 58 °C e spadellata nel burro di cacao, condita con bagnetto verde liofilizzato, che la succulenza record della carne reidrata, polvere di semi di finocchio, sale di bambù e crema di papaccelle, i peperoni sottaceto. Una tradizione al limite della pedanteria eppure en travesti, dove la tecnologia posa una maschera perfettamente trasparente sui lineamenti del classico bollito.

k10 Ravioli di faraona
k10-1 Risotto robiola e oca affumicata
I ravioli di faraona, cotta allo spiedo, laccata e frullata con la pelle nel Pacojet, vengono serviti con il brodo delle carcasse ottenuto insieme a liquirizia e altre radici nel Gastrovac, per tesaurizzare i profumi abbassando il punto di ebollizione. Mentre il risotto a base di Carnaroli della Riserva San Massimo porta in trionfo germogli e fiori dell’orto, con la robiola in mantecatura per l’acidità, spinta dal lime, e lo speck d’oca polverizzato per la sapidità e l’affumicatura.

k11 Anguilla con salsa teriyaki, cavolo viola, salsa barbecue con cavolfiore e vaniglia
k11-1 Il giro dell’oca
L’anguilla di lago è servita in millefoglie con salsa teriyaki e cavolo viola, per il cromatismo e la mineralità che smorza la grassezza. Mentre il giro dell’oca, la cui casella zero è nei gabbiotti dietro al ristorante, mette in sequenza il petto alla plancha, il cuore marinato, cotto a bassa temperatura e fritto nel panko, il foie gras crudo passato nei pistacchi e soprattutto le lingue saltate in padella, conosciute a Hong Kong: testura pura. Per il gioco agrodolce mela annurca, mandarini e kumquat; più la polvere di bietola ricavata dagli estratti, per uno scarto zero.

k12 Insalata di yogurt
k12-1 Zucca
Per dessert l’insalata simil curd di yogurt greco alla vaniglia con fragola liofilizzata, sfere di albicocca e amarena, polvere di lampone e pera, crispy di yogurt liofilizzato, che Iannotti definisce uno “yogurt 3.0”; oppure la zucca tagliata a tagliolino con una mandolina giapponese, cotta nello sciroppo e poi disidratata con terra di malto, acqua di cardamomo al Rotovapor e schiuma di albumina, acqua e zucchero.

Tutte le fotografie sono di Megueni foto

Indirizzo

Ristorante Krèsios

Via San Giovanni 59 - 82037 Telese Terme (BN)

Tel. + 39 0824 940723

Mail: info@kresios.com

Il sito web del ristorante Krèsios

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