Le tecniche e le pratiche che hanno trasformato un’osteria a gestione familiare nel migliore ristorante di pesce italiano.
La Storia
La Famliiga Cera
L’adriatico non è dietro l’angolo, a Lughetto di Campagna Lupia. Agglomerato di casette anonime e ordinate che da Mestre si raggiunge in una ventina di minuti di strada, attraverso la laguna verde di una campagna orizzontale. Eppure in nessun luogo, forse, è se stesso come nella conchiglia ortogonale dell’Antica Osteria Cera, immersa nel prato con la serra aperta per le erbe aromatiche, oltre il quale si stira l’orto del ristorante. All’interno una vita paziente e laboriosa. E una cucina che decenni di sperimentazioni hanno trasformato nella più stimolante e coerente interpretazione del mare in Italia. Un sistema di tecniche e di pratiche dal concatenamento tenace, darwinianamente adattato all’ecosistema più grande che pulsa qualche chilometro più in là.

Tutto è iniziato nel 1966, con Silvana, mamma di Lionello, Daniele e Lorena, trapiantata in loco da Vicenza, dove mandava avanti un’osteria, e determinata a proseguirvi la tradizione famigliare. Fritti e risotti, quindi, come conveniva alla location, con i 3 bambini a scorrazzare fra i fornelli e i tavoli. Lionello, in particolare, folgorato al punto da frequentare l’alberghiero per poi rimettersi prontamente all’opera al fianco della mamma. Cuoco ormai da 25 anni, senza esperienze formative fuori dal golfo della cucina di casa. Nella condizione ideale, quindi, per creare una cucina che in fondo in Italia non era mai esistita, stretta fra l’invenzione della tradizione con i suoi mille scogli e l’asprezza delle inflessioni dialettali.


Il risultato sono due stelle Michelin: il premio per una cucina di sabbia, tanto è reversibile e cangiante, che dell’Adriatico cattura lo stato d’animo e un fascino elusivo, più che la semplice fauna. Ne riproduce la stratificazione delle sfumature, dense e pastose, stese dal pennello morbido del gusto; oltre a una certa pigrizia fatta di tecniche dolci e poco invasive, che avanzano nell’ingrediente con il ritmo lento della marea. “Gli approvvigionamenti sono quotidiani. Prima me ne occupavo io, ora mio fratello”, spiega Lionello. “La mattina presto va a ritirare il pesce da una persona che ha fatto per noi il mercato di Chioggia; mentre ad Ancona diamo l’input a mezzanotte, il selezionatore, che lavora in esclusiva per noi, fa il mercato e a mezzogiorno arriva qui. Da Chioggia capesante, rombi, soasi, branzini, calamari, seppie, vongole e cozze; da Ancona scampi, calamaretti, dentici, ricciole, pesce spada. Durante il fermo pesca siamo costretti a rifornirci nel Tirreno, a Porto Santo Stefano. Ma è un pesce che non è nelle mie corde, per quanto ottimo. Lo trovo meno delicato, cosicché siamo costretti ad abbinamenti più tenui”.
I Piatti
In questo mare dell’istante restano a galla alcuni classici: il fritto come la catalana, per quanto evoluti. “Mi ha subito interessato fare una cucina diversa, perché siamo circondati da mille ristoranti di pesce. Quando andavo a mangiare però li trovavo sempre omologati: gli stessi piatti, da Padova fino a Mestre. I capisaldi li teniamo perché rappresentano le origini, e non vogliamo dimenticarle. Ma il fritto non è preparato come un tempo, nelle padelle nere con poco olio, per risparmiare. Uso un extravergine del lago che cambio di continuo e il pesce viene tenuto fino all’ultimo sul ghiaccio, per propiziare lo choc termico che lo rende leggero e croccante. Prima della farina i calamaretti vengono passati nella birra, perché abbiamo notato che il luppolo giova. In questo modo non si creano eccessi di pastella che si imbibiscono di olio”.

Il resto della carta è sotto il segno dell’immaginazione più che della fantasia, se è vera la distinzione tracciata dai filosofi fra due forme di creatività, la prima delle quali resta ancorata all’immagine, quindi alla visione della realtà. In questo caso il prodotto, sempre riconoscibile ed egemone, ancor più se stesso quando torna nel piatto al termine di digressioni che ricordano le pause ritardanti dell’epica prima del trionfo finale. “Ho testato le mie tecniche negli anni, studiando la materia prima e chiedendomi fin dove potessi arrivare. Una volta mia mamma faceva brodi con tutte le lische dentro. Ma non ogni pesce si presta e un fumetto non può essere tutto go, tutto lucerna, tutto scorfano. Ogni lisca ha il suo sapore da bilanciare. Per esempio quella di baccalà l’abbiamo messa in ammollo con acqua di mare, erbe aromatiche, anice stellato, pepe di Sichuan e pepe verde ed è tornato il sapore di mare. Dalla ripresa del bollore contiamo 11-12 minuti, poi spegniamo e lasciamo che fumetti e fondi maturino a temperatura ambiente, al riparo della pellicola per evitare proliferazioni batteriche. Questa fase dura 18-24 ore; abbiamo provato prima con 6, poi con 12 ore. Ma solo con una giornata intera a mio parere si raggiunge la perfezione di gusti evoluti e senza spigoli”.

“È inutile che io lasci bollire un fumetto per 3 ore: io faccio estrazioni quasi a freddo. Per esempio secondo la stagione preparo due tipi di basi con le vongole, le poveracce, che sono più delicate, le cozze o le cappelunghe. Una prima estrazione su una base di soffritto allo scalogno con odori, anice stellato, alloro e timo per un richiamo classico, in cui aggiungo i molluschi e poi raffreddo immediatamente col ghiaccio; attendo che il bollore riprenda, dopo 4 o 5 minuti spengo e filtro. Per un sapore più deciso procedo alla seconda estrazione, sostituendo al ghiaccio la prima estrazione ghiacciata. È una tecnica nata dai sauté di cozze e di vongole, che qui sono onnipresenti, oltre che buonissimi. Di solito vengono preparati la mattina e riscaldati al momento del servizio. Una volta però in un ristorante era rimasta dell’acqua sul fondo, che non usavano nemmeno, e aveva un gusto fantastico. Sono rimasto impressionato e mi sono chiesto: perché non estrarre quest’acqua e riutilizzarla per i fumetti? Lo spaghettino con crema di pistacchi al Pacojet, lucerna, mazzancolle e basilico, ad esempio, viene condito con questa seconda estrazione, perché il mare lo rimetto sempre nel piatto. Partendo magari dalle basi tradizionali della cucina di famiglia, come in questo caso”.

“Anche la marinatura per me è importante, non con aceto di vino o limone (di cui uso quasi solo la scorza), ma con erbe aromatiche, aceto di yuzu, acqua di pomodoro o di peperone. Una semplice seppia marinata sottovuoto a crudo dopo circa 1 ora ha già più sapore. Però le estrazioni vanno fatte al momento, per scongiurare l’ossidazione: occorre sempre un ragazzo dedicato durante il servizio.
Oppure c’è il risotto con gamberi rossi, lumachine di mare e liquirizia al brodo di seppia, che ottengo sempre dalla doppia estrazione dei molluschi. Al soffritto unisco le teste abbattute, che partendo da – 30 °C rilasciano tutto il loro collagene, come accade quando si sfrega la seppia nel ghiaccio. Nel frattempo sale la temperatura e intorno a 0 °C aggiungo l’acqua congelata. In questo modo ottengo profumi pazzeschi”.

Pasta e fagioli con scampi e salsa all’amatriciana
“Di bisque non ne faccio più, piuttosto procedo ‘a freddo’. Oggi Daniele ha preparato un fondo di astice con pochissima acqua di mare e le teste non dorate. Non amo tostarle, perché assumono un gusto caramellato e cotto a mio avviso sgradevole, quindi dopo il liquido unisco il ghiaccio. Se abbiamo fatto un’estrazione, anche un po’ di testa degli scampi alla Greenstar, per una percezione che arricchisce il gusto.
Per quanto riguarda il capitolo anisakis, abbatto solo il pesce servito crudo, secondo la legge, e quello azzurro, che prediligo, in modo da poter procedere a cotture leggere, per esempio dopo la marinatura cuocio il filetto di sgombro ai sapori mediterranei solo sotto la lampada del pass, affinché resti succulento. Lo strumento migliore sarebbe l’azoto, che però è impensabile considerati i miei quantitativi. Quindi dopo aver lasciato rilassare il pesce, per esempio lo spada, lo avvolgo in salviette imbevute in acqua di mare e lo abbatto, in modo da ottenere un prodotto standard che perde pochissimi liquidi, da consumare al massimo nell’arco di una settimana. Invece non abbatto assolutamente branzini, capesante, scampi o calamaretti, che arrivano ogni giorno e potrebbero solo scapitarne, asciugandosi. Tempo fa a Chioggia hanno pescato non so quanti quintali di ombrine, alcuni ristoratori dati i prezzi in picchiata ne hanno fatto incetta. Per farne cosa? Congelarle? Io compio i miei approvvigionamenti tutti i giorni su due mercati. Prendo quello che mi serve e cerco di avere una materia prima che è sempre il massimo”.

A proposito di pesce, il riferimento obbligato è al Giappone. Che in questo caso corrisponde a una dimensione dell’anima prima che a una contaminazione. “Mi piace molto la loro pulizia, l’uso essenziale della materia nel piatto. Per esempio in Giappone ho visitato una famiglia che fa anguille da sette generazioni; ne è nata una ricetta con riduzione di Capitelli e melassa non dolce di zucchero di canna, per una sensazione acida e cremosa. In brigata tengo sempre un ragazzo giapponese, perché sono imbattibili nel taglio del pesce e delle verdure e portano disciplina nel gruppo“.

“Adesso stiamo lavorando molto sulle erbe aromatiche e sull’orto, di cui si occupa mia sorella Lorena; mentre mio fratello Daniele segue la parte calda, i primi e i secondi; io il crudo e la pasticceria. Partiamo sempre insieme, assaggiamo, proviamo, sistemiamo. Personalmente mangio pochissima carne, mentre lui è proprio vegetariano. Quindi dopo avere inserito diversi piatti di verdure, stiamo pensando a un menu dedicato fra un anno”.


“Fra le ricette recenti voglio citare la ‘crupizza’, con salsa di bottarga, calamaro in due consistenze (in parte crudo, tagliato fine e sbattuto in una ciotola col ghiaccio; in parte scottato), scampo marinato nel suo fegato montato all’extravergine e branzino, tutti racchiusi nel cornicione di una pizza. Dove l’origano, il pomodoro e il latticino fungono da trait-d’union fra i due piatti. Oppure la spuma di patate con uovo marinato, caviale, frutti di mare ‘scioccati’, ovvero appena aperti, e verdure in diversi tipi di agrodolce, con aceto di yuzu oppure bianco e zucchero: una rilettura del classico tuorlo col caviale degli zar. E ancora un dessert con la camomilla che abbiamo essiccato appesa l’anno scorso, in agosto, e invasettata: adesso è da svenire. Ne ricaviamo una mousse che serviamo con gelato di capperi, spuma di cioccolato bianco, meringa al disidratatore, quindi più croccante, e granita di anice Varnelli”.


A sovrintendere alla sala e a una carta dei vini importante, particolarmente forte sul fronte francese, è la moglie di Lionello, Simonetta.
Tutte le fotografie sono di Tobia Berti
Indirizzo
Antica Osteria CeraVia Marghera, 24 - Loc. Lughetto, Campagna Lupia (VE)
Tel. +39 041 5185009
Mail: cera@osteriacera.it
Il sito web dell'Antica Osteria Cera