Parigi, Londra, Las Vegas, Tokyo, Taipei, Bangkok, Shangai, Singapore, Montecarlo, Hong Kong... Come nasce l'impero d'alta cucina più esteso al mondo, per mano di un uomo calmo e taciturno che un tempo sognava di fare il prete
La Storia
La Storia di Joël Robuchon
Il sole sta cominciando a tramontare sopra i laboratori del Roslin Institute di Edimburgo, mentre all’interno una squadra di ricercatori urla, si abbraccia e brinda in preda all'euforia. E’ il 5 luglio del 1996 e lì al Roslin è appena nata la pecora Dolly, il primo mammifero frutto di clonazione. Nello stesso momento, un uomo sta seduto a un tavolo con la testa fra le mani nella sala verde pastello del suo ristorante in avenue Raymond-Poincaré, nel centro del sedicesimo arrondissement di Parigi. Si chiama Joël Robuchon, secondo molti è il miglior cuoco della storia, e ha appena deciso di appendere la toque al chiodo smettendo forse per sempre di cucinare; stanco per la troppa pressione e convinto di aver dato tutto quello che aveva. Quel che non sa è che invece farà ritorno sulle scene in meno di dieci anni, e lo farà per diventare il primo uomo al mondo in grado di clonare non pecore ma grandi ristoranti.
Nato a Poitiers 51 anni prima, Joël mostra sin dall’infanzia l’indole docile e mansueta di chi sembra perfetto per diventare parroco, tanto che nessuno si stupisce quando al momento di scegliere cosa fare della propria vita decide per il seminario. Fra un’ora di preghiera e una di studio, appena può scappa a dare una mano in cucina, unico angolo in cui si sente a pieno agio. A 15 anni, complice il divorzio dei genitori, capisce che per quanto il nero dell’abito talare lo attiri, il suo destino è legato al bianco della veste da cuoco, e (pur rimanendo un fervente religioso) si ritira dagli studi clericali per inseguire il sogno di una carriera ai fornelli.
Inizia a girare la Francia lavorando in ristoranti sparsi da nord a sud, finché nell’estate del ’69 non finisce al Berkeley di Parigi, dove incontra il mentore che insieme ad Alain Chapel (il quale lo contagia con il mantra “santifica i prodotti”), lo condizionerà più di ogni altro: Jean Delaveyne.
– E’ stato il primo a permettere a noi cuochi francesi di sottrarci al giogo del classicismo derivato da Escoffier. La nouvelle cuisine sarebbe poi nata anche grazie a lui, e a me insegnò come la cucina non sia solo tecnica e regole da manuale, ma soprattutto riflessione.
A 29 anni, archiviata l'importante parentesi del Berkeley, Joël rimane nella Capitale ma si sposta all’hotel Concorde-Lafayette, dove gestisce novanta sottoposti grazie a cui vengono serviti migliaia di pasti al giorno. Nel frattempo vince il titolo più ambito dagli artigiani d’Oltralpe, quello di Meilleur Ouvrier de France, assegnato a chi si dimostri talmente bravo nel proprio mestiere da diventare un esempio nazionale. Comincia a viaggiare con frequenza, spesso insieme a Paul Bocuse, e resta folgorato dalla cucina giapponese per via della sua estrema semplicità. Proprio lui, che ha per maggior talento un solido impianto classico basato su salse, fondi e preparazioni ipertecniche, contamina la propria linea francese con il minimalismo asiatico, sottraendo ingredienti per magnificare quelli rimasti e concentrandosi come nessun altro sull’estetica di impiattamento.
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Gli ultimi passi da dipendente li compie sotto le arcate moderne dell’hotel Nikko, sempre a Parigi, poi decide che è giunta l’ora di mettersi in proprio e nel 1981 apre un locale destinato a entrare nella leggenda dell’alta gastronomia mondiale: Jamin. E’ questo intimo e raccolto ristorante di pochi coperti a far da palco alla sua ascesa, e a vederlo creare i piatti iconici che caratterizzeranno la sua intera carriera. La gelatina di caviale con crema di cavolfiore, l’animella di vitello tartufata con asparagi, i ravioli di scampi ai tartufi, il petto di piccione farcito di foie gras e avvolto da una foglia di verza, la leggendaria e imitatissima purée di patate…
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La critica francese rimane stregata dalla sua cucina ricca e centrata, tanto che le tre stelle arrivano in altrettanti anni consecutivi (la prima nell’82 e la terza nell’84), e nel ‘90 l’autorevole guida Gault et Millau lo incorona “cuoco del secolo”. Quando gli chiedono se abbia una filosofia particolare, lui scuote la testa con garbo e risponde:
– Per offrire una cena memorabile devi solo renderla semplice; ma renderla semplice è la parte difficile. Hai bisogno dei prodotti della migliore qualità, delle attrezzature adatte, e soprattutto non devi mai perdere di vista il sapore originale dell’ingrediente. Io ho imparato la verità dagli ingredienti, com'è giusto che sia, perché un cuoco deve esaltare la materia prima e non distruggerla.
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Nel ’94 si accorge che gli spazi di Jamin gli stanno ormai stretti, e si sposta nel più ampio e lussuoso “Joël Robuchon” di avenue Raymond-Poincaré, lo stesso ristorante in cui l’abbiamo lasciato a disperarsi all’inizio di questa storia.
Si strugge perché non capisce come possa migliorarsi ancora.
Ora che ha raggiunto ogni traguardo possibile teme di veder sopraggiungere il declino, mentre lui vorrebbe ritirarsi con dignità e lasciare di sé un ricordo splendente. E, proprio per questo, la sera di quel già citato 5 luglio1996 annuncia al mondo che non intende più cucinare. Il “cuoco del secolo” smette di fare il cuoco, e cede il suo ristorante a un collega che arriva da Montecarlo deciso a conquistare Parigi, un certo Alain Ducasse.
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Per qualche tempo Joël si riposa e si concentra sulle consulenze all'azienda di gastronomia industriale Fleury Michon, ma intanto inizia a rifarsi strada nella sua mente un'idea che lo stuzzica dai tempi del primo viaggio a Tokyo. Si rende conto che ad averlo logorato non è la cucina, ma il giudizio della critica e le aspettative dei clienti, che da lui ormai si attendono niente meno che la perfezione. E se invece lui non rispettasse le regole convenzionali dell'haute cuisine? Se non adoperasse tovaglie, per esempio, e magari neanche i tavoli? A quel punto il non avere le tre stelle dipenderebbe da fattori esterni alla cucina, e nessuno potrebbe accusarlo di aver subito un calo. Rimugina e progetta, finché nel 2001 decide che lo stato di fermo è durato già fin troppo e riparte dall'Asia aprendo “Robuchon a Galera” nel centro di Macao.
Il Format
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Ma si tratta solo di un antipasto, perché nel frattempo l'idea della sua vita è arrivata a compimento, integrata da nuovi dettagli: cuochi e camerieri vestiti di nero e non di bianco, clienti seduti attorno al bancone della cucina che osservano da vicino ogni preparazione come nei sushi-bar giapponesi, mezze-porzioni per chi volesse assaggiare più idee, piatti da tre stelle ma ambiente e servizio più informali (come a suggerire che si tratta di un'esperienza accessibile a chiunque). Costruito sopra questi dettami, nel 2003 nasce a Parigi il primo “Atelier di Joël Robuchon”, e la ristorazione mondiale cambia per sempre.
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Il format è tanto vincente che al primo Atelier ne segue un altro, e poi altri ancora, da Tokyo a Las Vegas, passando per Londra, Bangkok, Taipei... Fino a un totale di 8 con Ginevra e Montréal pronti ad aprire. L'impianto viene copiato da molti per intero o in parte (caso più noto è il Momofuku Ko di David Chang, a New York), e permette a Joël di spandersi in ogni dove mettendo insieme, a oggi, un totale di 25 stelle Michelin, che lo rendono il cuoco più stellato al mondo.
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In ogni sede i piatti sono i suoi vecchi o nuovi cavalli di battaglia, serializzati e riproposti da un Atelier all'altro con varianti minime dipendenti dalla cucina locale, e lo standard proposto è stabilmente ai vertici contemporanei pur senza rinunciare ai classici come la purée o il “merlan Colbert”.
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Se l'alta cucina ha già di per sé più da spartire con il design che con l'arte, perché all'istinto creativo e al gesto iniziale aggiunge la riproduzione in serie d'esemplari identici di un'unica opera, Joël Robuchon è stato capace di portare questo concetto a un livello superiore, mostrando come l'eccellenza sia facile da esportare e riproporre se poggiata su una struttura solida e su un sistema metodico, logico e professionale.
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In definitiva ci ha insegnato come si clonano i grandi ristoranti. Il rammarico, per tutti i golosi del mondo, è che ancora non si sia in grado di clonare lui.