Trattorie e Osterie

La Capanna di Eraclio, ovvero dell’elogio del tempo ritrovato

di:
Sara Favilla
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capanna di eraclio copertina 970

Terra antica. Codigoro, un territorio che parla, ma solo se si presta orecchio attento si fa ascoltare.

La Storia

La Storia della Capanna di Eraclio


Le vene del delta del Po si fanno qui sempre più sottili, in un dedalo di canali e nebbia, nebbia tutto l’anno, anche ad agosto. E una terra ricca, odorosa e feconda. Campi coltivati, la mano dell’uomo, qui come in pochi altri posti in Italia, ha saputo essere pesante, colture intensive e l’illusoria fiducia nelle magnifiche sorti e progressive. Ma la terra, immobile, ha continuato ad accumulare la propria storia. Quanto è piccolo l’uomo di fronte alla vastità di questi luoghi piatti, in cui il cielo narciso a tratti si specchia nei canali nascosti tra i cespugli. La strada corre liscia, in questa caldissima serata agostana, con il crepuscolo a smorzare i contorni delle cose e il suolo a tirare un sospiro di sollievo dalla calura, liberando la sua nebbiolina e annunciando i profumi della notte.

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La Capanna di Eraclio è lì, nascosta tra la bruma e la terra, sospesa. Ma non sei tu a trovarla, è lei che decide di apparire: andare in quel luogo richiede una sorta di apprendistato. Bisogna percorrere quella superficie, respirarla, non importa se hai fame, se è tardi, se si fa sempre più buio e se non sai dove ti porterà quella strada. L’ansia e la fretta non appartengono al vocabolario di questo luogo e di questo tempo. A mano a mano cala il silenzio, persino il rumore dell’auto si affievolisce, pare quasi non voler disturbare la vita notturna. Arriverà un momento in cui quella curva che credevi di aver già percorso almeno cinque volte, rivelerà un’insegna luminosa, a stagliarsi come un faro, un miraggio.

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Il Ristorante

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La Capanna ti ha trovato, è pronta ad accoglierti. Non si entra in un luogo qualunque, si badi bene, la stretta porticina d’ingresso si apre su un mondo cristallizzato in un’epoca distante, apparentemente perduta. Il grande bancone da bar, con fiori di campo, libri e riviste, scudetti e poster della squadra del cuore e una teoria di bottiglie di spiriti sullo sfondo, è il vero altare del tempio di questo culto del passato. Il pavimento sconnesso, il soffitto in perlinato – “Dovremmo sistemarlo, ma siamo pigri, lentamente lo rimetteremo a posto”, dice Maria Grazia, che ci accoglie col suo largo sorriso e un caloroso abbraccio – suggeriscono quella tranquilla accettazione dello scorrere del tempo, all’insegna dell’elogio della lentezza.

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I quadri sui muri raccontano di artisti che sono passati di lì coi loro pennelli e tubetti, a barattare un’agognata cena in cambio di quadri estemporanei creati tra un piatto e l’altro. L’atmosfera è intima, ma talmente familiare e accogliente che viene spontaneo mettersi a chiacchierare coi commensali dei tavoli vicini, suggerendosi vicendevolmente piatti o vini da assaporare e finendo per raccontarsi storie come vecchi amici, complici nel far rivivere la tradizione della grande trattoria italiana.

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C’è una saletta che di solito resta chiusa, ma che Maria Grazia mostra con orgoglio, ed è dove risiede il cuore della Capanna: pochi tavoli e i muri tappezzati di quadri e fotografie in bianco e nero, memoria storica del locale, ritratti di famiglia a rafforzare l’identità e il senso di appartenenza. Una vera e propria cappella per il culto degli avi.

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La cucina è completamente matriarcale: Wanda, 87 anni, occhi vivi e sorriso furbetto, Maria Grazia, la figlia e la di lei figlia Elettra, 23 anni, hanno il totale controllo di pentole e fornelli, mentre sala e cantina sono territorio del fratello di Maria Grazia, a deliziare la clientela con chicche di produttori locali, ma anche grandi vini. È l’elogio del tempo ritrovato, della gioia di sedersi a tavola, respirare una storia senza tempo eppure autentica, lasciandosi cullare da piatti che escono dalla cucina su un carrello di legno e raccontati con grazia e semplicità.

I Piatti

 

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Il menu è la celebrazione dei pranzi dei giorni di festa: un vassoio di porcellana che pullula di gamberi, cicale, carpaccio di tonno rosso, ma anche la grancevola alla veneziana con la sua straordinaria maionese montata a mano e servita in un’elegante ciotolina di metallo.

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Siamo in una terra di frontiera, considerata primo avamposto veneto, e lo dimostrano le moeche fritte con il loro guscio tenero e la polenta bianca, già tipiche della tradizione veneziana.

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Primi piatti a base di paste fresche tirate a mano, maltagliati con vongole veraci e salicornia, spessi e ruvidi, callosi quasi croccanti e perfetti nel connubio marino con le valve.

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I secondi piatti sono un crescendo di storia, dalle seppioline del Redentore, in cui l’amarognolo della cottura piastrata incontra la salinità e la consistenza scioglievole, passando per il gran fritto di Wanda con tutto il pescato (dal San Pietro alle sogliole alle moeche) servito su carta gialla, fino all’anguilla “arost in umad” su polenta bianca, prima scottata sulle braci e poi steccata in forno con aglio e rosmarino. La stessa anguilla che canta Montale, filtrando / tra gorielli di melma finché un giorno / una luce scoccata dai castagni / ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta, / nei fossi che declinano / dai balzi d’Appennino alla Romagna e che qui alla Capanna ha fatto scuola tra tanti cuochi contemporanei.

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Un menu che soffre l’assenza di alcune specialità perdute, come le rane, che l’avvento dell’agricoltura intensiva ha decimato fino quasi alla scomparsa. “Una volta, di sera, si stava fuori ad ascoltare il gracidare delle rane tra i fossi e la terra umida, poi sono arrivati i trattori con i loro erpici a dissodare le terre e a squartare le rane, poi i veleni e i concimi chimici hanno fatto il resto”, racconta rammaricata Maria Grazia. Questo è l’unico segno del tempo che è entrato nella Capanna, e non certo per sua volontà.

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La quotidiana resistenza, fatta di ospitalità, giovialità, amore e grande sapienza nel mantenere vive le tradizioni di un territorio ricco e operoso, è ciò che ancora oggi fa la grandezza di questo luogo. Assecondare il tempo, senza l’ansia delle mode succedanee, lo proietta nell’olimpo della buona ristorazione italiana, da preservare e da provare e riprovare.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

La Capanna di Eraclio

Via per le Venezie, 21 – 44021 Codigoro (FE)

Tel. +39 0533 712154

Mail: lacapannadieraclio@live.it

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