Nikita Sergeev celebra il rituale della primavera all’Arcade di Porto San Giorgio, in attesa del solstizio presso un nuovo locale, grande e ambizioso. Ed è una danza restless legs.
La Storia
La Storia di Nikita Sergeev
Non è mai sembrato così piccolo l’Arcade di Porto San Giorgio, a chi vi mette piede adesso. Sproporzionato rispetto alla crescita dei piatti dall’apertura nel 2013. È striminzita la cucina, con la sua apnea organizzata, così come la cantina, piccola parte di una collezione sparsa qua e là. Abbastanza da decidere il giovane patron Nikita Sergeev a stendere il suo telo altrove, senza allontanarsi troppo dal lungomare di Porto San Giorgio. Sono già in corso le trattative per un locale più grande, dove sarà finalmente possibile misurare il suo talento.
Questo equinozio tuttavia è caduto ancora in via Giordano Bruno, dove il giovane chef russo si è seduto a tavolino con i suoi collaboratori: il sous-chef Edoardo Corpetti, Assen Aghrebi, la new entry Riccardo Mungari e il sommelier Leonardo Niccià. “Sono poco romantico sul lavoro: quando arriva il momento di cambiare menu, mi metto sotto e basta. Ho iniziato come sempre, girando in cerca di ingredienti: perché il mio metodo è questo, parto sempre dal prodotto. Per esempio mi piaceva l’idea di inserire il rombo, ma lo volevo grande e nostrano, non il solito filetto.
Ho tentato la cottura nella creta, perché è una tradizione rimossa e per lo spettacolo in sala; assomiglia al vapore, ma è più dolce e conferisce al pesce una masticazione diversa, sostanziosa. Idee che ho sviluppato grazie al lavoro di gruppo. Ma sto già pensando all’estate e in particolare al pesce spada, che è stato un po’ accantonato, invece è pieno di possibilità se è quello giusto e nostrano. Oppure allo storione, che qui viene venduto in grandi pezzature, ma io lo preferisco piccolo, fino ai 2 kg, perché è più fine e non sa di fondale. Un retaggio russo su cui voglio lavorare”.
Le materie prime, tuttavia, sono più locali che mai: le verdure comprate al mercato dai contadini e le cassette del pescivendolo di fiducia, che si reca tre volte a settimana alle aste di San Benedetto e di Ancona. “Ha carta bianca, come il macellaio: se trova qualcosa di interessante, è autorizzato a portarmelo senza chiedere il permesso. Così sono nati piatti come la tartare di diaframma e il cuore. Da fuori arrivano le ostriche, mentre gli scampi e le cozze sono quelli del Conero, tutto l’anno”.
Capitolo tecniche, su piani già stipati si sono fatti largo il Green egg per il barbecue e il Roner. “Non mi è mai piaciuto e continua a non piacermi, ma ho voluto tentare usi diversi dal solito, con altri liquidi a bagnomaria”. Allo studio ci sono infatti brodi e salse, con il passaporto francese e qualche souvenir di vacanza. E la parabola è classicamente in crescendo, perché l’impronta marchesiana, impressa ad Alma, ha resistito alle turbolenze adriatiche. Basi classiche, quindi, per una cucina italiana che guarda a Oriente facendo talvolta tappa in Russia, come sui vagoni di una transiberiana: passione, cultura gastronomica e riflessività trascinano oltre, con le lievi sproporzioni che possono accompagnare uno sviluppo accelerato. La cifra del pasto è il viaggio, coerentemente con la biografia dello chef. Restless legs.
I Piatti
Il Percorso Nikita (100 euro con il supplemeneto di 45 per gli abbinamenti) comincia con la scaletta degli appetizer: le chips di riso con rapa rossa fermentata e ricciola; l’oliva all’oliva glassata al gin, per l’effetto Martini, e impanata al nero di seppia; la bilanciatissima indivia belga con crema sontuosa di ostrica; il pane carasau con baccalà mantecato e cipolle in agrodolce, un po’ vicentino, un po’ saor; la cotenna soffiata con salsa di prezzemolo e carpione. Segue la cialda di mais al nero con sgombro marinato all’anice, aneto e aglio nero.
Il guscio di riccio è farcito con ragoût iodato di cannolicchi al vapore e percebes alla base, condimento della polpa e spuma di spinaci centrifugati a crudo, che ripuliscono con la freschezza della clorofilla e il graffio dei flavonoidi, nel redesign cartesiano del vecchio inzimino.
Al posto della degustazione di olio arriva poi il brano di pane a lievitazione naturale da grani antichi marchigiani con extravergine da ascolana tenera Gregori e limone, per iniziare il pasto con la fine di un piatto, in testacoda. L’abbinamento è il Franciacorta Saten Lantieri.
Non è una seppia con piselli irride il tormentone di ogni inizio primavera: il mollusco, un tenerissimo allievo pugliese, viene tenuto sotto ghiaccio come si usa al sud, a fini di consistenza, poi quadrettato e scottato brevemente; anche la salsa, un fondo di cottura sfumato allo Champagne e alla Chartreuse, è espressa e nel connubio di acidità e residuo zuccherino ridotto crea una sensazione orientale, corretta in senso balsamico. Ma niente è ciò che appare e al posto dei consueti legumi ci sono perle sferificate all’agar-agar di purea di asparagi.
L’ostrica è un feticcio di Nikita: la Royale Cabanon di Marennes-Oléron, nella sua pezzatura deluxe, è servita immersa in un estratto a caldo di pomodori verdi, anice stellato e cardamomo dall’acidità spiccata, più un richiamo anisato al territorio marchigiano. Nel bicchiere sposa il Riesling alsaziano Léon Beyer 2013.
Segue l’ottima ricciola al vapore, ossimoro di purismo visivo ed esuberanza gustativa. Il monocromo bianco, ingannevolmente simile a un poisson à la crème, è infatti quello della zuppa Tom kha Gai, specialità delle Maldive a base di latte di cocco, brodo di pollo, foglie di lime, lemon grass e peperoncino, tradizionalmente usata per cuocere carni e pesci. Agrodolce sul metallico del pesce, senza rumori di fondo. Complice nel bicchiere il Sauvignon della Nuova Zelanda Cloudy Bay, per l’affinità nelle strutture e l’ampio spettro aromatico, con retrolfatto di frutta esotica.
Silenzio che non viene sporcato da alcuna guarnizione. Questa è posposta nella portata successiva: si tratta di un carciofo marchigiano ma cotto alla maniera campana, ovvero arrostito sulla brace del Green egg, e rosolato; lo accompagna una salsa alla senape nel ricordo del doppio servizio adoperato in Bretagna.
Spiazza il brodo di faraona con piquillo e tartufo bianchetto: piuttosto simile a un infuso per limpidezza e leggerezza, viene preparato sottovuoto e versato su una tartare di peperoni alla brace rivestita di lamelle di tubero. Un assemblaggio che crea un gusto nuovo, nato dal principio di contraddizione: sposare il tartufo al brodo, senza il consueto elemento proteico e animale, ma tendendo un filo fra affumicato e gassosità.
Da sempre Nikita eccelle paradossalmente nel comparto dei primi piatti, valigia ripiena del suo spirito di viaggiatore. Ed è notevole il carnaroli della Riserva San Massimo cotto all’acqua, secondo la dottrina della scuola Marchesi, e mantecato con purea di scalogni stufati al vino rosso e lampone fresco, per una spiccata acidità effetto aceto di lamponi. La mente corre alla vinaigrette per le ostriche e lo stesso effetto viene ricreato dai canestrelli di Chioggia sbollentati in acqua di mare, in stile shabu shabu. Chiude l’amaro dello scalogno bruciato spolverizzato in superficie. L’abbinamento è un sakè Gekkeikan Black and Gold da riso raffinato al 70%, cereale su cereale con profumi di fiori e frutta, per non entrare in collisione con un’acidità indomabile.
Il piatto del giorno, o del menu, sono però i ravioli di mousseline di branzino con alga nori e demi-glace di verdure, dove la grassezza pannosa della farcia, gallica con ricordi lattici di Russia, sposa il doppio umami vegetale del fondo ottenuto dagli scarti di cucina, secondo la tecnica della carne, e dell’alga nori a julienne, utile per ripescare l’ittico del pesce bianco. Un match estremo, anche fra cucine, rinfrescato dalla purea acidula di umeboshi. Nel bicchiere un blend secondo tradizione di verdicchio e trebbiano, il Kipra Ca’liptra.
Il rombo, come accennato, è servito in crosta di argilla con salsa mediterranea di pomodori in concassée, acqua di pomodoro, succo di arancia, olive nere, origano, capperi e acciuga. Ottima la consistenza, il pairing può migliorare.
Mentre il grande scampo locale, appena intiepidito nel burro nocciola alla scorza di pompelmo, affianca un gratin di patate rosolate al momento con jus di coniglio allo zenzero: pesce e carni bianche, come mamma Francia comanda, sposati a un Grüner Veltliner Salomon del 2014.
E il cuore di toro, cotto a bassa temperatura per 23 ore e rosolato, viene servito con granita di ricci, per esaltare la mineralità, e “salsa civet”, ottenuta da sangue di cuore misto a vino di visciole ridotto per la rotondità: un entremets marchesiano abbinato a Mongrana Querciabella.
Al predessert di rucola, olio, sale e granita di yuzu con shot di nigori, sakè allo yuzu, che resetta il palato attraverso la sinergia di acido e piccante, segue la generosità di un grande dessert italiano: la panna cotta preparata con metà acqua frizzante e profumata alla cannella, per arrotondare, servita con passion fruit, piccole meringhe al naturale per la testura, granita di acetosella e dragoncello. Si degusta con un Ramandolo Roncat 2009. Mentre la piccola pasticceria di impianto classico trova pace nell’Elisir Vegetale della Grande-Chartreuse o nel Vermouth Cocchi.
Tutte le fotografie sono di Cinzia Camela
Indirizzo
Ristorante L’ArcadeVia Giordano Bruno 76 - 63822 Porto San Giorgio (FM)
Tel. +39 0734 675961
Mail: info@ristorantelarcade.it
Il sito web del ristorante