Andreina dopo Andreina: Errico Recanati ha acceso i fuochi di una brace avanguardista. E sono tizzoni sempre accesi, dal 1958 a posdomani, passando per la lezione di Etxebarri.
La Storia
La Storia del ristorante Andreina
Modernamente antico e anticamente moderno,come Giulio Romano secondo Giorgio Vasari. Non era facile per Errico Recanati rianimare un ristorante storico, fondato 60 anni fa dalla nonna Andreina, mère d’Italie recentemente scomparsa. Ci è riuscito compiendo una traiettoria originale: prima l’apprendistato al fianco della carismatica fondatrice; poi la gavetta nell’alta cucina, per maestro Gianfranco Vissani, con il codicillo di stage da Pietro Leemann, Martin Dalsass e Quique Dacosta, che hanno propiziato una cucina esuberante e creativa. Infine un felice ritorno alle origini, ma in chiave contemporanea e con una consapevolezza tutta nuova. “Non c’è stato un momento preciso: qualche anno fa fortissimamente volli, come diceva il poeta, tornare alla cottura alla brace, quindi al passato, ma guardando il presente e forse il futuro”.
Difatti l’altare del camino è stato ripristinato e proprio il fumo è diventato il concetto di ferro del ristorante. Parallelamente i piatti si sono sfrondati di ogni elemento superfluo e baroccheggiante alla Vissani, conservandone la grinta neorurale in un quadro di emancipazione stilistica compiuta. “Ma passare da Loreto a Baschi, quando in cucina c’erano 19 cappelli bianchi, che impatto! Il mio pensiero è quello di arrivare alla semplificazione totale, con una grande materia prima, una grande tecnica, un grande legno, una salsa o un abbinamento consono. Insomma uno spiedo alla brace più elegante, attento, pensato. Perché oltre al gesto ci vuole anche il cervello”. Un po’ come i piatti della nonna, dove al massimo sbucava un contorno nel trionfo della materia e del fumo. Ci ha messo lo zampino anche Victor Arguinzoniz, visitato come cliente da Etxebarri molti anni fa. “Ha il merito di avere introdotto il concetto della brace nell’alta ristorazione e in questo senso mi ha aperto la mente. Avrei voluto anche fermarmi in stage, ma è risultato impossibile”. E forse è stato meglio così, perché l’idea si è cucinata da lontano, come il suo pollame, dipanando tecniche e concetti originali.
Al pari di Victor Errico non è solo rôtisseur, ma anche bricoleur. “C’è un signore che lavora il ferro vicino a me, subito dietro l’orto. Sono diventato la sua musa ispiratrice”. Ha così messo a punto diverse innovazioni. C’è la tecnica del cappello, sorta di cloche di diverse misure, in alluminio e adesso anche in acciaio, che sopra l’ingrediente trattiene il fumo, intensificandone l’aroma, su griglie di diverse altezze. L’ingrediente vi è adagiato sul lato della pelle, cosparso di burro salato (“mi serve per massaggiare e difendere la polpa; l’olio lo produciamo e lo adoro in altre vesti, per emulsionare o mantecare”). Poi c’è appunto la cottura da lontano, adatta ai volatili e anche agli ortaggi. Per esempio, un cavolfiore che resta appeso per un giorno abbondante alla distanza di 20-30 cm dalla brace, assorbendo tutti i profumi degli altri alimenti, da mangiare con le mani. Bassa temperatura post litteram.
Il risultato è neo-antico, primordiale eppure rivoluzionario e foriero di inesauribili sviluppi. Ma non prescinde mai dalla materia: le carni di vitello e manzetta sono marchigiane o umbre, i piccioni Moncucco (“l’allevatore non poteva credere che fossero buoni ben cotti ed è venuto apposta per ricredersi”), le faraone e gli agnelli dei Monti Sibillini; gli ortaggi e le erbe aromatiche arrivano in parte dall’orto accanto al ristorante, curato di persona, in parte da un contadino del posto; il pesce dall’Adriatico. Soprattutto c’è l’X factor: il fumo. “Prendiamo la carbonella dove la comprava Andreina 40 anni fa. Si compone di quercia, olivo, carpano, ornello, ginepro e ciliegio, ma io unisco altra legna che condisco”.
Adesso è il momento di un’altra pista: quella del quinto quarto di agnello trattato come bottarga, o forse katsuobushi. “Ho sempre pensato che la coratella fosse uno dei piatti più buoni del mondo; un giorno stavo tagliando le frattaglie e mi sono chiesto come farne dell’altro. Che so, un’insalata di fegato con tutta la sua ferrosità e un taglio a fette, come la bottarga. Da lì ho iniziato le prove. Oggi il cuore viene marinato per un’ora abbondante nel sale bilanciato, poi sciacquato, lavato e appeso in una parte del camino che ho ripristinato, con un buco sopra la carbonella condita con erbe essiccate, pepe lungo e di Timut per un surplus di aroma. Lo lascio per un giorno e mezzo o due, come il fegato, che però marino più a lungo, e la milza, che non marino affatto. Disidratandosi sviluppa un profumo fortissimo di fungo porcino, tanto che ho creato un piatto di finto fungo, che gioca sulla similitudine fra le due testure, entrambe lisce e scivolose”.
I Piatti
I menu del ristorante Andreina sono 3: Fuoco, con i piatti alla brace a 75 euro; Fumo, incentrato su vegetali e pesce, a 85 e Fiamma, con le ultime sperimentazioni a 100. Ed è ottimo già il pane all’orzo, che arriva in tavola con la focaccia alla cenere, la pizza di formaggio, ciotoline di lardo e burro affumicato, lasciato tutta la notte in una teglia bucata rivestita di stamina accanto alla brace languente. Per appetizer la cipolla bruciata con coratella di agnello, i tacos di mais ottofile con erbe di campo, la crocchetta di manzetta marchigiana, il frascarello, cialda di riso acida con ragù di pomodoro e lonzino, la lattuga alla brace con mezcal e mandorle.“Devo sempre stare sul doppio registro della terra e del mare, per rispetto verso la storicità del ristorante”, premette Errico. Ecco allora la capasanta scottata e farcita a caldo di ricci di mare, che restano crudi, servita con l’animella caramellata in padella al limone, come una volta. Dove le due polpe dolci e succulente esaltano la sapidità e la cremosità dell’echinoderma.
È ottimo poi il dolcissimo scampo dell’Adriatico scottato con frutto della passione per l’acidità, uova di trota per la struttura rotonda e croccante, erba ghiaccio a rafforzare l’acquosità ittica e una grattugiata di “bottarga di cuore”, per la nota affumicata e nocciolata. Dove il preparato finisce per fungere da jus asciutto, con una consistenza ariosa di tartufo nero.
Ancora più centrato il fungo porcino passato brevemente su brace fortissima, “perché la gestione del fuoco è fondamentale”, millimetrica e al secondo. Viene servito con doppio paté, di fegatini di piccione, in omaggio ad Andreina, e foie gras (presto cotto alla brace su una griglia ad hoc, dopo una lunga ricerca), ostrica cruda e maionese di ostrica, per l’acidità dell’aceto di mele, soprattutto milza grattugiata per la similitudine spiazzante fra i due elementi.
Evoca un souvenir di Medio Oriente il brodo di piccione corroborante, profumato all’anice verde di Castignano e all’anice stellato, per sfumature di diversa dolcezza, con carpaccio di petto e frutta secca, il grasso stagionale di un tempo.
Ma l’icona di Recanati sono ormai gli spaghetti Benedetto Cavalieri alla brace, una preparazione complessa e lungamente studiata. Prevede tre cotture: prima la lessatura lunga 10 minuti, poi il passaggio in un bagno di acqua a 55-60 °C per qualche minuto, volto a evitare lo choc del raffreddamento subitaneo e scaricare gli amidi, quindi la stesura su placche e il passaggio sulla brace per 5-7 minuti alla distanza di 18 cm. Il condimento è cacio e pepe, con il pecorino di fossa, il Parmigiano e una cuvée di 7 spezie (Sichuan, Timut, lungo, del Madagascar, nero, verde e della Tasmania). Forse la migliore cacio e pepe in circolazione.
Esempio di cottura da lontano è la faraona, lasciata appesa per 4 ore ad assorbire fumi e profumi del camino, poi finita al momento della comanda col burro salato su una griglia alta 25-30 cm sotto l’immancabile cappello. Viene servita con radici amare, estratto di salvia e rape rosse. Ma c’è anche la pernice, con la coscetta a bassa temperatura e il petto passato per 4 minuti sotto il cappello piccolo; per guarnizione una giardiniera di paccasassi, foglie di cappero, finocchio, rape e salsa di cicoria amara.
I dolci rovesciano il classico binomio selvaggina-cacao. Quindi il crème caramel di fegatino di fagiano a forma di fungo con cialda di fava di cacao e il Rocher di fegato grasso con gel di limone e visciole disidratate. Per piccola pasticceria gelatine, cheesecake, bignè alla crema. Ma da Andreina si beve anche bene grazie a Ramona Ragaini, elegante presenza di sala. La sua carta conta 350 referenze, per il 60% marchigiane, comprese le denominazioni minori, con ricarichi amichevoli su bottiglie in gran parte originali. “Dopo molte prove abbiamo concluso che la brace chiama vini rossi tannici e non troppo strutturati, ma anche bianchi, perché la tendenza è all’alleggerimento”, dice. “Quindi il Verdicchio, per la pulizia e la mineralità: sulla faraona di recente ci ha sorpreso l’ultimo nato di La Staffa, Selva di Sotto.”
Indirizzo
Ristorante AndreinaVia Buffolareccia, n 14 – Loreto (AN)
Tel.+39 071.970.124
Mail info@ristoranteandreina.it
Il sito web