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Profondità di pensiero e cognizione del gusto: debutta il nuovo menu di Luigi Taglienti

di:
Alessandra Meldolesi
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luigi taglienti ristorante lume

Riserva non poche sorprese il nuovo degustazione Frutto di un momento di Luigi Taglienti, chef che cavalca stili e contraddizioni, risolvendoli in pura eleganza.

Il nuovo menù

Pochi chef come Luigi Taglienti, fuoriclasse giunto alla sua prima maturità, si mostrano capaci di padroneggiare la varietas: nel suo ristorante di via Watt è possibile pescare fra i capisaldi della tradizione italiana, talvolta affatto rivisitati, come nel caso della celebre lasagna; le corse di una sublime selvaggina classicista, che accelera in una delle migliori lepri à la royale d’Italia; nuovi concetti vegetali e lampi di creatività pura, senza compromessi eppure elegantissima.

Foto di Alberto Blasetti



Ha debuttato da pochi giorni, in particolare, il nuovo menu Frutto di un momento: sono 10 portate a 170 euro, fra cui qualche prestito dal vegetale (la garcinia alle erbe, geniale misticanza di erbe aromatiche su un materasso di condimento gel, nient’altro che infuso di garcinia, frutto tropicale acidulo e naturalmente fumé, addensato alla Iota) e un giovane signature (la voluttuosa ostrica strapazzata). Le altre sono corse nuove di zecca, che per dirla con Uliassi manifestano profondità di pensiero e cognizione del gusto. Vengono elencate come un binomio di ingredienti. “Perché mi piace dare l’idea di qualcosa di pulito e di netto, corrispondente alle sensazioni in bocca: come una conflagrazione: boom! Poi ai due protagonisti si uniscono elementi sinergici, utili a configurare un’armonia. Ma la struttura nella carta e negli altri menu cambia”.

Foto di Alberto Blasetti



I Piatti

Sono sapori diretti, gusti primari. Lavoro senza nascondere gli ingredienti, ma esaltandoli con trattamenti poco invasivi, che ne enucleano l’essenza. E l’andamento mantiene una tensione costante, di massima eleganza nella potenza”. Non solo l’acidità, trademark dello chef, ma anche spiccate tendenze amare e grasse. L’eredità di Carlo Cracco è nitida in una cucina che azzarda volentieri lo schema binario, scivola in consistenze voluttuose e cavalca scioltamente il principio di contraddizione. Simile e diversa da un altro fuoriclasse della medesima genealogia e generazione, Matteo Baronetto, che però ha saltato la Francia.


Vedi il consommé di sedano rapa calibrato con sakè di yuzu e colatura di alici, servito freddissimo in una ciotola ghiacciata per lo schiaffo iniziale al palato, a mo’ di reset. Dove, abbandonata la crioconcentrazione di Alléno, la tecnica è una semplice infusione che mette in rilievo l’umami vegetale, ricorrente nel pasto. “Perché amo la pulizia delle liquidità”.


Oppure la zuppetta di ricci di mare: alla base una spennellata di burro di arachidi, che si stempera con il calore della fondina, poi le suprême di pompelmo rosa, tipo carpaccio, l’emulsione di echinodermi più freddi al naturale, con un filo di extravergine ligure, dalla consistenza nappante quasi di pralinato, un crumble alla nocciola, di nuovo sul nutty marino, e un giro di jus di faraona, intermedio fra la salsa francese e un sugo d’arrosto all’italiana. “Perché mi piace conferire un tocco nostrano a una preparazione classica, approntata con le cognizioni dei luoghi. Le salse sono nel mio DNA, ma l’italianità siamo noi”. Dove il gioco è fra la grassezza sontuosa sul cucchiaio e la mineralità aguzza, nella massima integrità della materia e con la tecnica silenziata, sospinta sullo sfondo. Soprattutto il filo nascosto porta al connubio pesci-carni bianche, come classicità comanda: contemporaneità, ma anche il grande stile di una vecchia noblesse, senza soluzione di continuità. Ad aspettare nel bicchiere c’è un Baron de L De Ladoucette 2014.


Il primo piatto è il fusillo al passion fruit e bottarga, match fra acidità e sapidità, ma anche salivazione e polverosità, senza ammortizzatori di sorta. Un pugno in bocca, che estremizza il connubio siciliano fra arancia e pesce azzurro; ma rinfranca che qualcuno abbia ancora il coraggio di osare. Preclusa l’opzione vinosa, si beve Birra Bionda Ex Fabrica.


Trippa e caviale esplicita l’ittico dell’ovino. “Siamo nel momento in cui gli agnelli iniziano a brucare l’erba fresca sulla Bisalta, cambiando sapore. Ne cuocio la trippa sottovuoto con centrifugato di sedano e carota, al posto del soffritto, per una sensazione finale quasi lattica, e la servo con alga wakame, per la similitudine delle testure, olio piccante, tartare di melone bianco a rinfrescare, salsa di Franciacorta ridotto e caviale”. Nel bicchiere un Ronchi di Cialla Bianco 2000. Scroscia poi sul palato l’acidità torrenziale del morone al limone, pesce di profondità tipicamente ligure, dalle carni grasse e burrose. Viene servito pastellato e fritto, ripieno di una suprême di limone e di caviale del Centa, mix di paté di olive e battuto di acciughe, in una foglia di limone, più scorza di limone salato e crema di limone nella percussione di un simil salmoriglio. Ed è il momento di Champagne Krug GC.


Ma è elegantissimo il rognone, cotto sottovuoto al rosa con un sospetto di fava di tonka e servito con una salsa di anguilla che mima il ricorrente contrasto fra ferrosità e grassezza. Viene ricavata affumicando il pesce nel forno a legna e infusionandolo a 58 °C per 40 minuti nell’acqua, per poi frullare e filtrare. A risaltare è il contrasto fra la testura leggermente gommosa della frattaglia e la liquidità moderna e spontanea della salsa, lattica, rotonda, affumicata, con tre foglie di dragoncello a rinfrescare. Soprattutto la salsa recupera il gesto italiano del pesce passato al setaccio, addensante di zuppe regionali come il ligure ciuppin, per un sapore finale quasi di caviale, puntualizza Taglienti. E in questo mare che si fa sesto quarto rispunta un’altra reminiscenza di Cracco, maestro insieme a Ezio Santin, Christian Willer e Christian Sinicropi a Cannes.


L’ultimo “clin-de-langue” a Cracco è il piccione al caffè, ma alla moda di Taglienti. Quindi il filettino crudo e il petto al vapore, spellato e cosparso di caffè in polvere, blend personalizzato di Illy. Dritto al gusto amaro del caffè, con una punta di salsa albufera per ammortizzare a piacere. Dove non c’è tecnica, ma pensiero; nel bicchiere un Barbaresco Currà Sottimano 2010.


Chiude il Gran Dessert conviviale e festoso, quasi a ingranare una marcia indietro secolare sugli stili di servizio. Comprende 6 assaggi, fra cui di nuovo qualche giovane signature: asparago bianco e nocciola, cipolla e oro al frutto della passione, sorbetto di olio e bergamotto, cocco e clorofilla, il visionario sanguinaccio di pesce azzurro e la crosta terrestre di cioccolato Caramelia spolverizzato di funghi porcini e nocciole, ripieno di tiramisù, per un finale rassicurante.

Le fotografie sono di Alberto Blasetti

Indirizzo

Ristorante Lume

Via G. Watt 37 – 20143 Milano

Tel. +39 02 80888624

Mail: restaurant@lumemilano.com

Il sito web del ristorante Lume 

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