Il vezzeggiativo sta ormai stretto allo spin-off modenese di Massimo Bottura, che delega alla guida i migliori fra i suoi ragazzi. Attualmente Francesco Vincenzi, interprete di un’inedita emilianità under 30.
La Storia
Fra i tanti meriti di Massimo Bottura, comincia a esserci quello di aver formato ragazzi in gamba, pochi dei quali decidono infine di lasciarlo. Dopo l’ottimo Bernardo Paladini, trasmigrato a Dubai su una fuoriserie di grossa cilindrata, è la volta di Francesco Vincenzi, che gli è subentrato in Franceschetta, spin-off popolare del ristorante più importante del mondo. Ma il vezzeggiativo ormai sta un po’ stretto, perché qui si fa sul serio, senza perdere la verve e la gioia di un bistrot. Non è una Francescana in sedicesimo.L’impressione è quella di un locale in progress, verso dove di preciso, ancora non è dato di sapere. La ristrutturazione degli ambienti, realizzata durante la pausa estiva, ha sicuramente contribuito non poco: la cucina è stata raddoppiata nella metratura e ammodernata nelle attrezzature, mentre la sala ha guadagnato colore, virando sul celeste, con inserti di verde e giallo senape, nuovi decori e sedie variopinte. Francesco era di casa dal maggio 2017, quando ha affiancato Bernardo Paladini per 6 mesi, fino ad afferrare le redini nel gennaio 2018.
Prima di quell’investitura, un unico maestro: Massimo Bottura, affiancato con un pizzico di fortuna per un decennio dopo l’alberghiero a Serramazzoni, scelto per la passione domestica inoculata dalle azdore di famiglia. “È successo che un’estate, fra il secondo e il terzo anno, ero troppo giovane per lavorare e ho chiesto alla scuola di mandarmi in stage. Loro si sono rivolti alla Francescana, ma deve esserci stato un misunderstanding, visto che io volevo cucinare, invece mi hanno spedito in sala. Anche se alla fine è stata un’esperienza proficua. Quando Massimo lo ha saputo, gli ho strappato la promessa di un altro stage in cucina l’anno successivo. Perché era già il mio mito. Così è stato, e finita la scuola sono rimasto”.
“Ho iniziato affiancando Davide Di Fabio agli antipasti, nelle vesti di commis. E mi sembrava di essere stato catapultato su un altro pianeta, ci ho messo un po’ a entrare nel loro mondo. Amavo già la cucina, ma vivendo questo lavoro giorno dopo giorno mi ha folgorato la squadra. Nel tempo ho battuto praticamente tutte le postazioni, dai primi piatti al laboratorio per le preparazioni. Ho ricoperto diversi ruoli fino a quello di capopartita ai primi. Perché da emiliano la pasta mi affascina sempre”.
“Siamo a un chilometro dalla Francescana e non avrebbe senso tentare di proporre un’esperienza simile. Piuttosto vogliamo essere una sorella piccola, che condivide il pensiero sulla materia prima e sul lavoro di squadra, ma in chiave easy. Siamo un team giovane e affiatato: chiunque potrebbe parlare al mio posto. E anche la cucina è collegiale: l’idea e l’osservazione giusta possono arrivare da tutti, anche da un ragazzo di sala”. Da qui i tavoli fitti, con il bancone per mangiare gomito a gomito, e la mise-en-place sempificata, con le posate contate nel barattolo, fulmineamente cambiato all’uovo.
Di fatto le Franceschette sono due, anzi tre: quella storica, con i piatti di stampo botturiano in carta, dall’irresistibile bun con pancia di maiale marinata, coriandolo, verdure sottaceto, yogurt e salsa piccante all’Emilia Burger, fino agli iconici tortellini in crema di Parmigiano; quella comfort, easy, defaticante dei piatti della tradizione italiana, eseguiti con il bisturi calato nel dettaglio; infine la Franceschetta di Vincenzi, cuoco che evidenzia subito palato e mano. A differenza del romano Paladini, essendo nato a Sassuolo e cresciuto a Formigine fa dell’emilianità una cifra creativa, non solo nel repertorio di modelli, memorie e ingredienti: la sua cucina si distingue per l’esplorazione e l’esaltazione mai stucchevole, ma sempre identitaria di dolcezze e grassezze che più di qualsiasi altro principio caratterizzano la tavola a queste latitudini, come argomentava Gualtiero Marchesi. Un registro dimenticato, praticamente assente nella cucina degli chef under 30, troppo impegnati nel corpo a corpo con amari, acidità e umami.
Di fatto Vincenzi ha carta bianca e pieni poteri, anche se Bottura passa quasi settimanalmente ad assaggiare i piatti, complice l’ubicazione strategica, a metà strada tra la Francescana e Casa Maria Luigia. E i fornitori sono spesso in comune, con una corsia preferenziale per chi produce in zona. Capitolo vini, la sommelier Elisa Cifola ha assemblato una carta che fa ruggire nella parte del leone il Lambrusco, da Vittorio Graziano a Podere il Saliceto, e privilegia in ogni caso i naturali.
I Piatti
A pranzo c’è la formula del lunch (antipasto, primo o secondo e dolce a 25 euro); a cena la carta lunga comprensiva di 6 antipasti, 7 fra primi e secondi e 1 dessert. Con la possibilità di scegliere fra 2 menu degustazione: Tradizione in evoluzione, 5 classici del ristorante e della cucina italiana, di stampo più botturiano, a 50 euro e I love Modena, 7 corse più giovani e creative a 70. Non cambiano mai completamente, ma per inserti graduali e stagionali. Nel cestino del pane, ottimo, la pagnotta a lievito madre, il panino ai semi di finocchietto, la focaccia con cipolla e rosmarino, le chips di polenta.
Le liturgie sono un po’ semplificate rispetto a un gastronomico. Si inizia con il benvenuto, attualmente un bicchierino che ricorda, solo all’apparenza, la storica compressione di pasta e fagioli della Francescana. E non è l’unica citazione di un pasto, dove l’allievo sottotraccia rende omaggio, forse inconsapevolmente, al suo maestro. Si tratta di una verticalizzazione di crema al vapore di funghi con dadolata di zucca affumicata, infuso di funghi e timo, infine spuma di Parmigiano Reggiano 30 mesi, da sorbire in ultimo.
È già un signature di Vincenzi il Persico trota alla cacciatora, piatto ispirato alle tradizioni dell’Appennino, che finisce per sconfinare in un brodetto al peperone. Quindi il pesce d’acqua dolce sfilettato e ricomposto attorno a una farcia sfilacciata di classico coniglio alla cacciatora, poi tostato in padella e finito in forno. In liaison con il coniglio, per una classica associazione italiana, c’è il brodo di peperoni, ottenuto dagli ortaggi tostati in forno, poi lasciati scolare a vapore per tutta la notte, in modo da rilasciare gli umori caramellati senza intorbidimenti. Più una spolverata di peperoni rossi essiccati per un monocromo che nell’elisione del colore, evidenzia visivamente tattilità e testure. Similitudini nel morso, pesce e carne bianca.
Ma risalta il risotto all’anguilla, preparato con i ritagli dell’hit della Francescana, nell’ottica dello scarto zero, di cui varia associazioni e motivi. Dove il pesce viene affumicato e frullato con acqua e aceto, poi utilizzato in mantecatura per una cremosità dalla suadenza seducente. Sezionando in verticale, alla giardiniera di sedano, carota, cipolla e peperone all’aceto di mele campanine succedono saba, risotto e una grattata di rafano, che evoca il wasabi dell’originale giap.
Ottimi anche i passatelli classici, preparati con il pane avanzato al ristorante. Vengono guarniti di lumache bolognesi à la bourguignonne, con burro, aglio e prezzemolo, crema di cavolo nero, scorzonera per la dolcezza e tartufo. Terra terra terra, in liaison con la nota earthy e di pascolo del Parmigiano; mentre il brodo di carciofo, sorta di tè ricavato bollendo gli scarti, somma tannini ai flavonoidi, scartavetrando la morbidezza della memoria come una spugna abrasiva su una vecchia argenteria. “È la mia interpretazione autunnale di un piatto che tutti abbiamo mangiato da piccoli. Nostro. Può essere servito asciutto o in brodo, a piacere”.
Più rassicurante, ma studiata nei dettagli, la pasta e fagioli. “Per alleggerirla abbiamo cercato le varietà più digeribili. Quindi la crema di cannellini, cotti e frullati con acqua di pomodoro bollita con croste di Parmigiano, più separatamente altri quattro tipi di fagioli: zolfino, Trasimeno, cannellino rosso e Sorana”. In cerca del legume perfetto, un mix di formati: la pasta mista di Giovanni Assante. E poi la polvere di prezzemolo, una brunoise di sedano e carote, la dadolata di crosta.
Torna alle dolcezze padane il coniglio ripieno arrosto, disossato e farcito con salsiccia mista a prugne secche, noci e lardo, cotto al vapore a 90 °C, poi arrostito in forno e in padella. Giace su un letto di fichi appena asciugati e concentrati in forno, più un piccolo fondo addizionato di Madera ridotto e una fettina di lardo fondente.
Per dessert c’è un’altra citazione strisciante, la sfogliatina al limone con capperi e caffè. Oppure la zuppa inglese, fine pasto nostalgico delle domeniche di festa, variato nelle consistenze. La base è l’alchermes dealcolizzato per imbibire i savoiardi, più classica crema pasticciera e spuma di cacao; tutt’intorno lo stesso alchermes, elevato a potenza dall’infusione di anice, chiodi di garofano, cannella e scorza di arancio, poi addizionato di liquore in purezza per la parte alcolica a sgrassare. Perché Dio è nei dettagli.
Foto di Paolo Terzi e Aldo Giarelli
Indirizzo
Ristorante Franceschetta 58via Vignolese 58 - 41124 Modena
Tel. +39 059 309 1008
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