Sarà una geometria variabile, quella entro cui si muoverà la ristorazione nei prossimi mesi: la tracciamo con Vittoria Veronesi e Gianfranco Marrone.
La Notizia
C’era una volta la gastromania, quella “fregola per il cibo, la cucina, il gusto, la buona tavola”, insomma quella mania collettiva della gastronomia descritta non senza sarcasmo dal semiologo Gianfranco Marrone. “Mangiamo, beviamo, gustiamo e degustiamo, assaggiamo, assaporiamo, sbafiamo, centelliniamo, apprezziamo, gozzovigliamo, ma anche e soprattutto ne parliamo, descriviamo tutto ciò, lo raccontiamo, commentiamo, giudichiamo, rappresentiamo, fotografiamo e filmiamo e condividiamo, immaginiamo, sogniamo”… È passato appena un lustro dall’anno di pubblicazione, eppure sembra un’altra era geologica. Perché nel bollettino della protezione civile rischia di entrare tutto un comparto e perfino una cultura.Nella fase 3, quando finalmente potremo tornare all’agognata normalità, comunque accada, avremo ancora voglia di sintonizzare il tubo catodico sulle performance degli star-chef o preferiremo le arringhe di un virologo? A che profondità sarà penetrata la criminalizzazione del piacere, in virtù della quale sono state chiuse le pasticcerie, ma non i panifici? Nella nuova stimmung virus free ci sarà posto per il revenge spending o l’edonismo diventerà un lontano ricordo? Non mancherebbe forse qualche vantaggio, senza la zavorra di avventurieri e faccendieri, influencer e groupies scollacciate. Una piccola catarsi in cui forse, come il calcio, la gastronomia potrebbe ritrovare la propria anima. Ma Gianfranco Marrone dissente: legge anzi nell’esplosione della covidvialité (ovvero la condivisione compulsiva sui social di piatti approntati e vini stappati) un momento di gastromania sfrenata, per quanto domestica e reattiva. “Seppure in emergenza, è possibile inventare cose nuove. Faccio un esempio estremo: andare al ristorante da soli è sempre stato considerato da sfigati o da giornalisti. Sono atteggiamenti che potrebbero cambiare. In un mondo alla rovescia, anche i giudizi possono essere ribaltati. Resta vero che è tuttora in corso una criminalizzazione del corpo e di tutti i suoi piaceri. Quando si ragiona in termini di prima necessità, la gola è automaticamente fuori. Si tratta di ragionamenti funzionalistici e ingegneristici che secondo me vanno osteggiati. Il supermercato non è un diritto, ma un dovere. Sennò ricadiamo nell’idea post bellica che mangiare serve solo per nutrirci”.
La fase 2 tuttavia incalza. Dopo il 4 maggio si presenterà innanzitutto la possibilità di affiancare al delivery l’asporto; poi dal 1 giugno, curve permettendo, dovrebbero riaprire, fra mille limitazioni, i ristoranti. Ci sarà chi non vedrà l’ora di fiondarsi a tavola, per scattarsi un selfie in mascherina, e chi resterà barricato in casa in preda alla paura. Quindi la necessità per i ristoratori di giocare le proprie carte su tavoli diversi. Ne parliamo con Vittoria Veronesi, direttrice del Master in Food and Beverage dell’Università della SDA Bocconi di Milano. “Nel mondo della ristorazione e del food c’è un prima e un dopo covid-19: uno spartiacque che ha portato gli operatori del settore a riflettere sia sul presente che sul futuro del comparto, adattando il proprio business in base alle esigenze e alle modalità di consumo emerse a seguito dell’emergenza. Sarà innanzitutto indispensabile osservare con maniacalità le norme di sicurezza, per vincere la paura, che rappresenterà il primo ostacolo da oltrepassare per uscire di casa. Poi sarà necessaria una motivazione ulteriore. Quindi occorrerà investire sulla qualità, di qualsiasi tipo, che si tratti di materie prime, creatività, filiera corta, proposte etniche o vegane e in generale di un valore aggiunto a livello di innovazione. Ogni ristorante dovrà cercare di offrire qualcosa di particolarmente accattivante. A sopravvivere saranno coloro che sapranno distinguersi per qualsiasi ragione, a prescindere dalla tipologia e dalla fascia. La value proposition dovrà essere chiara e forte, impossibile galleggiare”.
L’home delivery, del resto, si è già evoluto non poco nelle mani dei grandi chef. “Credo che continuerà a essere un driver di sviluppo fondamentale per la ristorazione, che non diminuirà con le riaperture, ma che affiancherà l’attività all’interno dei locali. Questo renderà il mercato ancora più competitivo: per differenziarsi, sarà necessario da parte dei ristoratori arricchirlo con aspetti esperienziali unici, soprattutto per i ‘top di gamma’. Tipologia di offerta, servizio pre e post vendita, packaging, modalità di pagamento rappresentano un segno di continuità rispetto al posizionamento del brand, un’attenzione al dettaglio che ‘coccola’ il cliente al tavolo di casa, che lo fa sentire come se fosse al ristorante. Una cura che si riflette anche sulle modalità di consumo del cliente, invogliandolo a indossare un bell’abito o preparare una mise en place più sofisticata e gioiosa. In attesa di poter ritornare ai rituali di convivialità reale, seduti alla tavola di un buon ristorante”.
Minore fiducia invece nell’opzione asporto, almeno nelle grandi città. “In tempi di carrier e piattaforme i ristoranti dovranno rassicurare i clienti, facendosi garanti sull’assenza di rischio nel trasporto. Ma anche quando le attività riprenderanno il trade off sarà tra farsi portare il cibo a casa o uscire. Dipenderà dalla presenza di questi servizi e dall’esposizione internazionale, cioè dalla presenza di stranieri che non siano turisti, ma lavorino in città. Idem per le città universitarie. Ma delivery e ristorazione non sono proposte alternative, piuttosto corrispondono a diverse occasioni d’uso, che si possono integrare. I miei studenti per esempio usano l’home delivery anche come home campus delivery; per loro uscire rappresenta piuttosto un modo per socializzare o fare movida. La stessa pausa pranzo in smart working potrebbe spingere l’home delivery. E se a Milano era già normale che le cucine restassero aperte 18 ore al giorno, venendo incontro alle necessità della clientela internazionale in modo proattivo, l’offerta potrebbe rimodularsi facilmente”.
David Chang ha sostenuto che il delivery fosse già il futuro della ristorazione e che il covid abbia solo accelerato l’evoluzione in corso, piuttosto avanzata negli Stati Uniti, dove si costruiscono appartamenti privi di cucina. “Ma è difficile globalizzare e generalizzare. In Italia resta il gusto di fare la spesa, scegliere gli ingredienti, recarsi nei mercati rionali dai fornitori di fiducia. Tutto questo non passerà”. Considerate le normative che si prospettano, con distanziamenti anche al tavolo e controlli di temperatura all’ingresso, la socialità non potrebbe trovare uno sfogo privilegiato nelle case? “Non tutti però hanno abitazioni spaziose e in generale il ristorante è una coccola, che solleva l’ospite dalle incombenze. Penso alle Torri Gemelle: hanno segnato un prima e un dopo anche loro. I controlli all’aeroporto inizialmente generavano tensioni, c’era poca chiarezza, ora sono stati metabolizzati. Accadrà lo stesso al ristorante: inizialmente ci faranno specie la distanza o la turnazione, che presto diventeranno normali”.