La messa a norma? Non un costo, ma un’opportunità per l’innovazione. Ne è convinto l’ingegnere Massimo Gelati, CEO del Gruppo Gelati, che offre consulenze all’HORECA. Ecco il punto della situazione prima delle nuove direttive.
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La messa a norma? Non un costo, ma un’opportunità per l’innovazione. Ne è convinto l’ingegnere Massimo Gelati, CEO del Gruppo Gelati, che offre consulenze all’HORECA. “Sui tre pilastri della formazione, della tecnologia e della sicurezza alimentare, che si somma a quella universale sul lavoro, la ristorazione post covid può diventare un modello virtuoso per tutti: il ristorante deve accreditarsi come il luogo dove si rischia meno che a casa attraverso un’accorta opera di comunicazione, cui finora è mancata una voce autorevole”.Lo stato dell’arte è questo: al momento sono in vigore il protocollo condiviso del 14 marzo e il suo aggiornamento datato 24 aprile, oltre a documenti preesistenti quali il regolamento CE 852/2004 sull’igiene alimentare, con obbligo di tracciabilità e HACCP, e il decreto legislativo 81/08 concernente la sicurezza sul lavoro. Sono stati stilati due protocolli in fase 1, relativi alle aziende di trasporto e ai cantieri edili, ma nessun protocollo per la ristorazione. Solo iniziative private, a opera della FIPE, di Gennaro Esposito per la Campania o del Gruppo Gelati stesso. Una situazione paradossale, visto che dalla Calabria all’Alto Adige i governatori stanno riaprendo le attività, che dovranno rifarsi ai documenti esistenti.
Il protocollo condiviso del 24 aprile, in particolare, elenca 13 punti. “Posto che la ristorazione è stata classificata dall’INAIL come un’attività ad alto indice di assembramento, ma a rischio di contagio medio basso, la prima cosa da fare è la valutazione in base al proprio ambiente e alla propria tipologia di offerta. Il quadro infatti cambia a seconda delle metrature, dell’attività di somministrazione, delivery o asporto. Fra i 13 punti spicca la sanificazione di ambienti e superfici, che va fatta al momento della ripartenza o in caso di eventuali contagi. Farla più spesso, come accade in giro, è un di più, positivo peraltro. Poi l’obbligo di guanti e mascherine a distanza inferiore a un metro: anche in questo caso fornire i dispositivi a tutti non è obbligatorio, ma rappresenta una buona pratica. Ci sono spese e ci sono investimenti: per esempio la barriera in plexiglas, che mi sembra opportuna solo di fronte alla cassa, e il distanziamento fra i tavoli hanno un costo; mentre altre misure possono rivestire un valore di innovazione. Penso alle tecnologie per nuove forme di prenotazione e pagamento, visto che i contanti possono veicolare il contagio. Se al momento della prenotazione si sceglie il menu, il tempo che intercorre fra il momento in cui il cliente si siede e quello in cui inizia il pasto può ridursi da 40 a 5 minuti, diminuendo lo stress in cucina. Perché la ristorazione con il calo dei coperti dovrà essere un’esperienza, non un bivacco: la capacità non andrà ridotta, ma spalmata, magari con una turnazione che amplii gli orari di servizio, conciliando distanziamento e fatturato. Anche se gli italiani forse non sono ancora abituati”.
“Secondo i nostri calcoli, già un tavolo da 80 per 80 consente il distanziamento di 1 metro. In pratica per ogni coperto bisognerà calcolare una superficie di 4 metri quadrati, quindi un ristorante normale perderà pochi coperti, un fine dining praticamente nessuno. E per i camerieri sarà sufficiente la mascherina, o meglio ancora la visiera, che è meno impattante; così come per i cuochi, laddove dovessero lavorare gomito a gomito. Ci tengo a sottolineare che quasi tutti stanno dimenticando il tredicesimo punto, che prescrive la costituzione di un comitato di applicazione e controllo. Fra qualche mese potrebbe rivelarsi un problema, perché secondo la legge italiana il contagio da covid può rientrare nella fattispecie degli infortuni sul lavoro. Quindi il titolare sarà tenuto a dimostrare che ha fatto tutto il possibile per prevenirlo”.
“Occorrerà la massima personalizzazione nell’adeguamento, che potrebbe costare dai 10 ai 30mila euro, a cominciare dalla sanificazione secondo i 3 metodi validati dall’OMS: l’uso di ipoclorito di sodio, cioè candeggina; alcol al 70% e acqua ossigenata al 3%. Mentre l’ozono non sanifica. Al ricevimento della materia prima sarà indispensabile uno spazio di scartonamento prima delle celle e dei depositi, del quale non tutti dispongono. Al momento la misurazione della temperatura corporea è opzionale, ma andrà tenuto un registro degli ingressi nel rispetto della privacy, in modo da estendere il concetto di tracciabilità al cliente”.
“Penso che si stia facendo troppo terrorismo: l’applicazione dei protocolli esistenti non comporterà grandissimi problemi, ma modifiche organizzative che possono rappresentare miglioramenti nel servizio e innovazioni. Per esempio l’abolizione della tovaglia, che andrebbe cambiata a ogni turno, mentre è sufficiente sanificare i tavoli, o l’eliminazione dei menu cartacei. In questo modo il ristorante, con tutte le responsabilità che gravano su di esso, potrà diventare il luogo privilegiato della sicurezza alimentare. È mia convinzione che nel futuro prossimo dovrà continuare ad affiancare formule diverse, accanto alla somministrazione resteranno il delivery e l'asporto, oltre magari a nuove attività come rosticceria e pasta fresca, perché una parte della clientela resterà diffidente e gli stranieri mancheranno. Con una significativa estensione della responsabilità ai momenti successivi al confezionamento del cibo, relativi alla consegna e alla conservazione”.
Recentemente è uscito un nuovo Documento tecnico Inail su ipotesi di rimodulazione delle misure contenitive del contagio da SARS-CoV-2 nel settore della ristorazione; si attende che tale documento sia recepito nel prossimo DPCM, previsto per i prossimi giorni, ma sostanzialmente conferma quanto detto sopra, sicuramente con alcune limitazioni per il settore, ma lasciando comunque lo spazio alle opportunita’ di cui abbiamo parlato.