Le prime ricerche dicono che si può brindare al deconfinamento. E i telefoni dei fine dining sono già bollenti.
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La Cina insegna: al lockdown può seguire il revenge spending. E le prime rilevazioni sembrano darle ragione. Secondo un sondaggio dell’Osservatorio Vinitaly – Nomisma Wine Monitor solo il 23% dei consumatori è intenzionato a ridurre le proprie spese al ristorante. Il 58% degli italiani sarebbe intenzionato a mangiare fuori alla medesima frequenza del passato. A corroborare l’ipotesi sono i telefoni bollenti dei gastronomici che hanno già riaperto le prenotazioni in vista del 18 maggio, cominciando dal San Domenico di Imola.Fra le tipologie di clienti tuttora riluttanti figura un’ampia fetta di pubblico femminile in particolare meridionale, spesso colpito da difficoltà sul lavoro. Per contro è stato calcolato sempre da Nomisma che il lockdown ha prodotto un accantonamento forzoso pari a 20 miliardi di euro in altre categorie, come i pensionati, impossibilitati a spendere dal fermo. Potrebbe essere un buon tesoretto per rilanciare il mercato.
Sarebbe una buona notizia anche per il mondo del vino di qualità, che resta indissociabile dalla ristorazione. Si calcola che il suo giro d’affari nel settore HORECA equivalga a 6,5 miliardi di euro. Anche qui, del resto, si profila il medesimo revenge spending, se è vero che il 10% dei consumatori ha dichiarato di essere intenzionato a spendere più del passato, percentuale che si impenna fino al 13% per chi non ha avuto problemi sul lavoro e al 15% nel caso dei giovani. Occorre infatti ricordare che circa un terzo dei consumatori e il 42% degli under 40 beve preferibilmente fuori casa, per un valore che copre il 45% delle vendite in Italia, pari a 14,3 miliardi di euro nel 2018. Una bottiglia costa in media 15,4 euro, un calice 5,7.
Sul settore pesano anche i contraccolpi dovuti alla chiusura di altri canali strategici, quali export e turismo. “Il ruolo della ristorazione e gli effetti del lockdown sulle vendite di vino in Italia e all’estero emergono con chiarezza dai dati delle giacenze, in particolare per alcune denominazioni particolarmente esposte con i canali della ristorazione. Si va infatti dal +9% dei volumi in giacenza del Montefalco Sagrantino e del Nobile di Montepulciano al +8% del Chianti Classico, dal +16% della Falanghina al +24% del Soave. Ma il danno inferto dalla chiusura non è solo prerogativa dei vini di fascia premium: si pensi al +36% in giacenza di Castelli Romani o al 22% di Frascati, vini tipicamente somministrati dalle trattorie della capitale, non solo rimaste chiuse ma purtroppo anche a corto di avventori stranieri”, spiega Denis Pantini, responsabile dell’Osservatorio.
Fonte: Il Sole 24 Ore