Un ristorante gastronomico, dal design originale e contemporaneo, situato al primo piano dello show room delle pentole Agnelli, voluto dal CEO Angelo Agnelli, visionario gourmet a tutto tondo, con la cucina di Filippo Cammarata.
La Storia
Bolle nuovamente del buono in pentola, in quel di Bergamo. Ed è una pentola Agnelli, visto che parliamo del ristorante aziendale dello storico brand di padelle & affini. Era il 2018 quando Angelo, acquistato un capannone con l’idea di ricavarci uno show room e ritrovandosi un piano inutilizzato, vi ambientò mentalmente un pensiero stupendo. Da qui la telefonata all’amico chef Filippo Cammarata, che da tempo collaborava ai banchetti per il centro di ricerca e formazione sui materiali di cottura nella fabbrica di Lallio: “Facciamo un ristorante?”. Sotto la padella più bella, il fuoco si è acceso lo scorso 4 luglio. Ed è appena tornato a voltolare lo scorso venerdì, passata la fase acuta dell’emergenza covid. “I tavoli erano già ben distanziati, non ne abbiamo perso nessuno, solo qualche coperto”.Filippo si definisce “un siciliano nato a Bergamo”. Perché è stato nelle campagne isolane, con l’omonimo nonno, che si è appassionato alla tavola. “Mi piaceva aiutarlo a cucinare: faceva le sarde arrosto o la pasta con l’aglio”. I genitori però si erano trasferiti al nord e lui con gli amici mangiava lombardo. “Dopo il diploma all’alberghiero San Pellegrino, dovevo fare una stagione in Francia, ma per motivi personali ho deciso di fermarmi e per 15 anni ho cucinato in una birreria con cucina, che abbiamo trasformato in un bel locale: Cece e Simo. La cucina era prettamente di carne, con qualche influenza siciliana e il vegetale in evidenza. Ed è stato lì che ho conosciuto Angelo, con cui ho iniziato a collaborare. Un gourmet a tutto tondo, che lavora con tanti cuochi, ama mangiar bene ed è molto attento anche al servizio, sempre propositivo”.
Quando il telefono ha squillato, però, la prima cosa è stata prendersi un anno sabbatico per seguire quella wanderlust che avrebbe presto battezzato un menu. “Ma attraverso mail e videoconferenze non ho mai smesso di seguire l’allestimento del locale, sempre a contatto con Angelo e con l’architetto”. Ed è una bella occasione dopo un percorso atipico, lontano dai riflettori. “Mi considero un autodidatta nonostante un paio di esperienze importanti. Nel 2015 con la mediazione di Angelo sono approdato in stage al Reale, nel 2017 alla Francescana. Del primo mi ha colpito soprattutto il lavoro sulla concentrazione del gusto, mentre da via Stella ho portato a casa un bel bagaglio umano, fatto di spirito di squadra”.
La cucina di Cammarata tuttavia segue rotte proprie, con la bussola nervosa degli autodidatti: prende forma dalla collisione di souvenir di vita e di viaggio, fino a lambire la fusion, connaturata a “un siciliano nato a Bergamo”, imbizzarrita dalla duplice freschezza del vegetale e di un’acidità galoppante. Senza trascurare gli strumenti di cottura, che restano oggetto di indagine appassionata. “Quando escono una pentola nuova, un nuovo rivestimento, una forma originale, arrivano prima al ristorante per un test. La mia preferita tuttavia resta sempre la padella in alluminio nudo, che più di tutto ci lega all’italianità del gesto, senza indulgere al superfluo”.
Foto di Benedetta Bassanelli
I Piatti
Il menu in ogni caso non soffre vincoli, se non quelli della stagione: ci sono Ebollizione, il degustazione di terra a 60 euro; Bollicine, quello di pesce a 70, e Wanderlust, ispirato ai viaggi, che va prenotato online. Le carni sono in gran parte locali, dalla pecora bergamasca al manzo di Clusone; i vegetali sono coltivati in biodinamica a Lecco; il pesce è anche quello di Orobica. Sugli allori gli aceti: di Chianti, di mele sui primi per il finale dolce, di arance, aromatizzati al fiore di sambuco e al fico.Custode della cantina, ospitata al piano terra del capannone, è il sommelier Andrea Zamblera: ha assemblato 400 etichette, che giostra in percorsi di abbinamento che costano dai 40 ai 60 euro. “La mia è una carta giovane, ma personale. Seguo il filone anglosassone: anziché smorzare le acidità di Filippo con sensazioni morbide, le esalto con altre acidità. Cercando di suscitare nuovi gusti che equilibrino i contrasti”.
Gli appetizer sono estrosi e preannunciano il tono acido del pasto: il rocher di caponata, preparata secondo la ricetta di famiglia e pralinata; il ravanello all’aceto di vino rosso con gel di tuorlo, modello insalata russa, e la terrina di quaglia, sotto il segno di un ripescaggio d’antan.
Ma già lascia il segno lo sgombro, eccellente per non-cottura sotto la salamandra, servito a temperatura ambiente con un decotto di cedro fermentato modello kombucha e puntarelle per il triangolo sapido, acido, amaro. Dove risalta l’originalità delle consistenze, con la polpa succosa e la salsa liquida, non invasiva eppure profumatissima e sgrassante. Un classico della cucina mediterranea, il pesce azzurro con gli agrumi, rivisto in chiave contemporanea con purismo esemplare e qualche tocco asiatico.
Ancora contaminazioni nel chawanmushi a base di bisque di gamberi, già ricchi di albumina, più una modesta aggiunta di albumi, con gamberi rossi crudi, carapace fritto croccante e bisque addizionata di sakè versata in sala. Telefono senza fili fra Giappone, Italia e Francia, con il budino nipponico che sfuma in una classica royale. In bocca morbido e generoso, con i contrasti del caso.
Cammarata è particolarmente affezionato al riso fritto, assaggiato in Cina e poi a Houston da un cuoco cinese, in versione americana. “Io l’ho portato nel Mediterraneo con pomodoro e basilico, erba che secondo me non deve mai mancare”. Si tratta di riso Venere croccantato in padella e servito con emulsione di pomodoro, anatra laccata ed erbe aromatiche, fra cui coriandolo vietnamita e 3 tipi di assenzio per l’amaro, più il gel di aceto per un’acidità che francamente spariglia. Zamblera scioglie il rebus con un Pithos bianco di Cos, che risponde all’acidità con una nota piacevolmente volatile e porta equilibrio nel piatto con un sospetto di pasta di acciughe. Oppure con un Adonis della Grapperie, rosso delicato dal tannino tenue, praticamente privo di solforosa, che danza su note di rosa, sangue e spezie in connubio col piatto.
Fra i primi i paccheri alla vaccinara sono un omaggio ad Adriano Baldassarre, che ha ospitato per qualche giorno Cammarata in cucina. “Il suo cubo di vaccinara, passata all’estrattore e unita alla polpa per ricavare una polpetta, è un signature. Io però ho tenuto solo il succo con cui risotto la pasta, come fa lui, più una julienne sottile di sedano a rinfrescare”.
È poi eccellente e di nuovo puristico il piccione Miroglio, che cambia secondo le stagioni. Viene cotto intero in una padella di ferro; il petto è servito al sangue con il filettino crudo e il jus addizionato di un fondo vegetale, che può essere di verza o di bieta; la stessa verdura ben croccante è utilizzata come involucro da tacos per le coscette disossate e tostate in padella, su una royale di fegatini; per finire con il cuore marinato alla peruviana in un mix di peperoncini e passato al barbecue. Dove diverte il classico doppio servizio che diventa triplo e mixa stili e culture. Zamblera mesce un Carema Etichetta Bianca Ferrando, nebbiolo in purezza proveniente dai confini della Val d’Aosta, fresco, lieve, verticale, sapido. Borgogneggiante.
Memorabile anche il predessert: un risottino alla mela, con crema di mele ruggine fermentate alla maniera dell’aglio nero, per sentori di liquirizia e umami, burro bianco all’aceto di mela e centrifugato di mela verde, caviale e olio al crescione, in equilibrio fra acidità e sapidità sopra un fondo dolce, sul canovaccio di un binomio rodato.
Il dessert è un signature, dolce non dolce che prosegue il registro acido del pasto: su una base di semifreddo al cioccolato bianco, assembla mozzarella di bufala, finocchio fresco e una meringa all’aceto, reminiscente di Romito.
Fotografie di Benedetta Bassanelli
Indirizzo
Bolle RestaurantVia Provinciale, 30, 24040 Lallio BG
Tel. 035 090 0208
Il sito web