Tempo di bilanci per la cucina d’avanguardia: il Fat Duck, migliore ristorante del mondo nel 2005, compie 25 anni ed Heston Blumenthal ne ripercorre cavalcata e prospettive.
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Multisensorialità, azoto liquido, chiarificazione col ghiaccio e distillazione per centrifuga, neurogastronomia: se oggi sono termini e concetti all’ordine del giorno, lo si deve in gran parte a Heston Blumenthal e al suo The Fat Duck, ristorante fondato nel 1995 che più di qualunque altro ha portato la scienza in cucina, non senza ricadute su medicina, farmaceutica, neurologia. Fino al conferimento dell’Honorary Fellowship da parte della Royal Society of Chemistry nel 2017, che equiparava lo chef a 175 eminenze, fra cui Madame Curie e Albert Einstein.La fortuna aiuta gli audaci, si sa, e lo chef britannico era povero di risorse, racimolate con lavoretti improbabili, ed esperienze (due passaggi lampo da Raymond Blanc e Marco Pierre White) quando acquistò un pub a Bray, convertendolo in ristorante. La sua forza? La curiosità di non smettere mai di domandarsi e di domandare. “Question everything” è non a caso il motto del suo stemma, con una lente per la vista, la mela per il gusto e la scienza, le mani per le relazioni.
Tutto era iniziato nel 1982, in occasione di un folgorante viaggio in Francia con i genitori e di una sosta all’Ousteau de Baumanière, allora tristellato. Da lì un’ossessione che non si è più fermata: “Mentre i miei amici se la spassavano al pub, io compivo i miei esperimenti sulla tripla cottura delle patatine, scottate, raffreddate, fritte per evitare la migrazione dell’umidità sulla crosta. Poi l’inizio delle sperimentazioni sull’azoto, ispirate dalla figura di Agnes Marshall, titolare di una scuola di cucina e prima donna a parlare presso la House of Lords, quando il suffragio non era ancora universale, la quale in un libro visionario parlava di “liquid air”. Da lì il suo impiego nella produzione di gelati vellutati, dai cristalli impercettibili, per la prima volta al mondo.
Ma in questo romanzo di un cuoco c’è anche l’Italia, dove Heston Blumenthal domandò al cameriere del Parmigiano da aggiungere al risotto ai frutti di mare, ricevendo per tutta risposta un’occhiataccia. “Per me non aveva senso: esiste un gruppo di composti chiamati ribonucleotidi che formano l’ambiente dell’umami. Sono presenti nella pizza, nel pomodoro, cui gli italiani istintivamente uniscono il Parmigiano, e anche nel granchio, cosicché si tratta di ingredienti complementari. Per me è stato immediatamente evidente che stavamo sbagliando nell’attenerci rigidamente a certe ‘regole’ e che avremmo dovuto mangiare ciò che volevamo, ascoltando fondamentalmente le nostre viscere”. Ne è nato nel 1997 un “risotto” composto di gelato al granchio, gelatina di frutto della passione, succo di peperone rosso e altri ingredienti “compatibili sotto il profilo molecolare”. Era l’atto di nascita del food pairing.
E ancora gli studi sulla semantica del cibo con Martin Yeomans della Sussex University, volti a battezzare il piatto in modo da giocare con le aspettative e influenzare le percezioni sensoriali. Chiamare mousse anziché gelato la stessa preparazione, per esempio, comportava che fosse avvertita come nettamente più sapida. Ma anche i caratteri, la musica, gli ambienti, le fragranze d’ambiente erano in grado di influenzare l’esperienza di una cena sempre più multisensoriale.
The sounds of the sea, con la registrazione su ipod, fu in questo senso il primo esperimento volto a sollecitare la sfera emotiva e la nostalgia nella degustazione. Senza dimenticare la collaborazione con Jon Prinz del Centre for Food Sciences at Wageningen University, Olanda, che fece ascoltare a Blumenthal il crunch di una mela mentre masticava un chewing gum. E poi Peter Barham dell’Università di Bristol, nel cui laboratorio avvennero tante scoperte, dalle basse temperature alla distillazione sottovuoto, dagli evaporatori rotanti alle basi della profumeria. La strada era aperta per una cucina fondata sullo studio delle molecole, delle sensazioni che originano e delle loro trasformazioni, detta perciò “molecolare”, in contemporanea e in sinergia con i fratelli Adrià a Roses. Etichetta cui avrebbero presto rinunciato in favore di “modernista”.
Fonte: theworlds50best.com