Gli spaghetti alla lampada sono il piatto firma di Angelo Paracucchi, ma anche un manifesto della sua rivoluzione mai così attuale: c’è lo chef, con un passato di maître, che esce in sala.
La Storia
È tuttora bellissima la Locanda dell’Angelo di Ameglia, locale dalle proporzioni auree firmato da Vico Magistretti. Ma parla di un angelo caduto nella polvere, travolto in scandali che hanno ostacolato la sua consacrazione, fermata a una singola stella. Tra i più grandi cuochi italiani, l’umbro Angelo Paracucchi, classe 1929, fu lo storico antagonista del francofilo Marchesi prima di Vissani, apripista di un’italianità incentrata sulla pasta, che si è dimostrata alla lunga vincente. Si devono a lui l’utilizzo pressoché ubiquo dell’extravergine, la riduzione delle cotture del pesce, la costruzione del piatto attorno a poche materie scelte con cognizione di causa. Ma Paracucchi era anche molto tecnico e nel suo ristorante custodiva un laboratorio avanzato per ricette calibrate sul grammo.Gli spaghetti alla lampada sono il suo piatto firma, ma anche un manifesto della sua rivoluzione: c’è lo chef, con un passato di maître, che esce in sala. Soprattutto ci sono l’extravergine, i tempi di cottura giusti, la pasta e una semplicità studiata, ai tempi aliena. I ricordi sono tuttora vivi fra gli allievi, come Luca Landi, che rievoca il modo “carnale, passionale” con cui il maestro si approcciava fisicamente alla padella. “Anche se in realtà preferiva le linguine”. Alessandro Panichi non ha assistito all’esecuzione autografa, ma a quella insegnata all’allievo Claudio Tonelli, entrato alla Locanda a 14 anni, tanto da essere considerato un figlioccio. Le varianti erano due: lo spaghetto mare e quello allo zenzero, con peperoncino e mozzarella. “Fin da ragazzo preparavo i carrelli per la sua esecuzione davanti ai clienti, cosa all’epoca assai innovativa.
Usava una lampada Alessi, di cui aveva curato personalmente i dettagli. Gli spaghetti arrivavano dalla cucina in un contenitore con dell’acqua di cottura; tutti gli altri ingredienti erano pesati, io glieli passavo e assistevo. Poi quando ha aperto il Carpaccio a Parigi, per contratto era vincolato a essere presente 100 giorni l’anno. Quindi sono stato istruito a eseguire i piatti in sua assenza ad Ameglia con un training di 6 mesi. Era piacevolissimo che il cliente associasse l’allievo al maestro. Ricordo l’emozione di cucinare in pubblico e la responsabilità di gesti che non potevano essere corretti. Col tempo mi sono reso conto di quanto il maestro fosse avanti: aveva già capito che tutti gli elementi avevano cotture differenziate secondo il tessuto connettivo. Lui diceva che una volta i cuochi parlavano di segreti perché non capivano cosa accedesse, ma si trattava di reazioni chimico fisiche da controllare. Di fronte al cliente ovviamente non potevamo assaggiare niente, riconoscevamo la cottura dal colore dello spaghetto e in mantecatura sfruttavamo l’amido della pasta emulsionato al grasso, come ai tempi non faceva nessuno. Personalmente sono convinto che nemmeno il suo ruolo di promotore della cucina italiana, da Parigi alla Corea, fino in Giappone, sia stato adeguatamente riconosciuto. Alla Locanda sono entrato nel 1976 come ragazzo di ristorante, poi sono diventato maître e gestore insieme al figlio Stefano. Fino al 2012 ho provveduto non solo a quei piatti, ma anche agli scampi all’Armagnac con riso pilaf, al filetto di manzo al tartufo nero, alle fragole o ai fichi caramellati su semifreddo”.
Fra i suoi allievi anche Mauro Ricciardi, che tiene accesa la stella su Ameglia. “Usava spaghettini fini per la cottura leggera e pesci di altissima qualità: nella sua cucina non entrava niente che non fosse eccelso, anzi andava lui di persona al mercato. A volte anche con me a prendere le zucchine. La gente si ammazzava per portare dentro la roba: il meglio finiva tutto qui, dall’orata agli scampi vivi. Roba inarrivabile, che adesso ci siamo dimenticati. Qualcuno lo riforniva anche gratis pur di mettere piede in casa. Il piatto era prima di tutto spettacolare e ne andavano tutti matti. Ricordo la sudata in sala a farne uno dopo l’altro. Tutti quelli che sono passati l’hanno preso. In una zona all’epoca piuttosto povera e scarsa, dove si spendevano 5mila lire, qui ce ne volevano 80mila. Tanto che si scommetteva una cena da Paracucchi. Ma lo spaghetto era addomesticato in cucina: tutto era studiato prima per lo show attorno al totem bellissimo di Alessi. Ne conservo ancora uno, mentre l’altro è sparito. Adesso uno chef che si alza alle 4 di mattina per bloccare i camion, che gli passano davanti, non esiste più. E i contadini si vantavano: ‘Io la do ai Paracucchi la mia roba’. Un privilegio”.
Spaghetto di mare alla lampada
Ingredienti per 4 persone
260 g di spaghetti
120 g di calamaretti
12 gamberi
30 g di polpa di granchio
8 scampi
Prezzemolo
2 cucchiai di passata di pomodoro
2 cucchiai di bisque di crostacei
Vino bianco secco
Olio profumato all’aglio
60 ml di olio extravergine di oliva
Sale, pepe, peperoncino
Procedimento
Tutta la preparazione va eseguita in sala alla lampada, predisponendo gli ingredienti in diversi contenitori.
Scaldare metà dell’olio con il peperoncino e incorporare la polpa di granchio. Salare, pepare e sfumare con un goccio di vino. Quando sarà evaporato versare la bisque.
Cuocere gli spaghetti in acqua bollente salata fino a tre quarti di cottura, mettendo da parte un po’ della loro acqua. Aggiungerli nella padella, poi unire nell’ordine calamaretti, gamberi e scampi sgusciati. Bagnare con poca acqua di cottura, il resto dell’olio, l’olio all’aglio e la passata. Saltare fino a mantecare bene, poi spolverizzare di prezzemolo tritato e servire.
Foto dell'articolo di Lido Vannucchi