Chef

Chi sono i migliori giovani chef italiani all’estero che hanno scalato le cucine più importanti del mondo – quarta parte

di:
Alessandra Meldolesi
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iocucinoacasaconglichef 94

È la quarta parte della nostra rubrica di approfondimento dedicata ai i migliori giovani chef italiani all’estero che hanno scalato le cucine più importanti del mondo. Dal Noma di Copenaghen, passando per Alain Ducasse a Londra fino al ristorante di Guy Savoy a Parigi.

Riccardo Canella

(ex*) Sous-chef del Noma, distaccato dal 2017 alla Test Kitchen

Percorso

Sono nato a Padova 35 anni fa, ho compiuto il mio apprendistato da Biasetto, poi ho lavorato da Marchesi all’Albereta e ho fatto un breve passaggio da Alajmo. Al Noma sono arrivato in stage nel 2014: finiti i tre mesi, mi hanno mandato a Tokyo per il primo pop-up, poi mi hanno offerto il posto di capopartita. Infine, durante il break natalizio del 2016, René mi ha proposto il ruolo di sous-chef. Sono stato notato, credo, perché lavoro sodo e sono umile.


Differenze con l’Italia

Il Noma è una grande azienda che opera come un ristorante, quindi le risorse sono molto ingenti, sommando laboratori, progetti collaterali e partecipazioni, oltre all’associazione no profit Mad. Tutte attività che satellitano attorno a noi. Da queste parti 15 anni fa non c’era nulla, quindi è più facile non avere referenze e fare avanguardia. Senza il fardello della tradizione, siamo più leggeri. Ma il 90% della clientela è straniera, solo ora stiamo cercando di lavorare con i danesi, che magari sono un po’ meno audaci a tavola.

 

Gestione della cucina

Il laboratorio al momento è fermo. Abbiamo preparato il menu game season con i migliori piatti delle ultime due stagioni, riadattati con qualche novità, a stretto contatto con René, che è un po’ il direttore d’orchestra. Si tratta di un incubatore di idee, di concetto come di tecnica, che vengono tramutate in piatto finito. In totale al Noma siamo 24 assunti e 30 stagisti.

 


Rapporto con la città e la cucina locale

Penso che se René fosse stato al 100% danese, non sarebbe mai arrivato così in alto. Aveva una fame diversa di raggiungere i suoi obiettivi. Ma la new nordic secondo me è morta, ammesso che sia esistito qualcosa prima, quindi “new” non so che senso possa avere. Il Noma sta facendo un lavoro minuzioso su quella che potrebbe essere una cucina regionale, tutto è improntato sui prodotti locali, ma siamo contaminati dai nostri viaggi e da diversi background. Il modo di cucinare è materico e si ispira alla natura, ma lo stile è più ampio. Lo stesso René oggi si sente libero di rifarsi alla cucina mediorientale e balcanica delle sue origini. Resta qualcosa che ha senso a Copenaghen, fortemente contestualizzato in questi luoghi.

 

Libertà di decisione

Qui la libertà è totale, ma mi vengono anche affidate idee da approfondire, che a un certo punto bisogna concretizzare. E può essere frustrante, perché il 99% degli spunti è destinato a essere bocciato. Sulla carta è il lavoro più figo del mondo, ma il successo è una goccia nell’oceano. E la mente deve restare sempre affamata di novità. Fra i miei piatti entrati in carta, cito la pasta di sedano rapa cotto, spennellato di alga e orzo fermentato, essiccato e cosparso di salsa d’uovo; l’insalata di asparagi con la muffa; la frutta semidisidratata con caramello di coniglio.

 


Vuoi rientrare?

Il 19 dicembre 2020 lascerò il Noma. Sto lavorando a un bel progetto, con base in Danimarca. Anche se prima passerò qualche mese in Italia. In futuro però mi piacerebbe rientrare: è l’unico paese in cui avrebbe senso un mio ristorante, a coronamento del percorso compiuto.

* Riccardo ha comunicato a fine dicembre la fine del suo lavoro al Noma

Matteo Lorenzini

Sous-chef at Alain Ducasse at the Dorchester, Londra

Percorso

Ho lavorato per Alain Ducasse negli anni e in più ristoranti. Al Louis XV di Montecarlo, quando avevo poco più di vent’anni, iniziai come commis e finii da capo partita. Anni dopo lo Chef mi ha affidato l’apertura di un bistrot a Parigi di matrice italiana, Cucina (concept che poi è stato adottato anche all’interno del ristorante dell’Hotel Byblos di St.Tropez). Volendo tornare a fare alta cucina, mi sono trasferito a Londra, dove era aperta la posizione di sous-chef.

 


Differenze con l’Italia

In Inghilterra la ristorazione si muove velocemente, si fanno volumi più grandi e i ristoranti sono spesso al completo, a prescindere dal periodo dell’anno (almeno prima dell’emergenza covid).

La maggior parte dei ristoranti aprono alle 18:30 se non alle 18:00 per il servizio della cena. È un lavoro più frenetico rispetto all’Italia e spesso anche rispetto alla Francia. I prodotti e la materia prima in alcuni casi sono più complicati da reperire rispetto all’Italia, come ovviamente molti ortaggi (radici escluse) a causa del clima. “Problema” che si presenta anche a nord della Francia, ma al quale i francesi sanno ben rimediare grazie a mercati come Rungis. Lo stesso mercato del pesce a Londra non è facilissimo, a differenza della carne. Agnello, Manzo e Capriolo sono ad esempio di grandissima qualità.

 

Gestione della cucina

Bisogna abituarsi ad altri ritmi fuori dall’Italia, spesso però il personale a disposizione è (per forza di cose) quantitativamente superiore. Di positivo, negli ultimi anni, ho notato che il numero dei ragazzi italiani nelle cucine dei grandi stellati all’estero è in aumento e parlo di professionisti di grande valore. All’apertura di Parigi, per esempio, ho potuto contare sull’appoggio di ragazzi francesi, ma soprattutto italiani. Alessandro Muzzu, Paolo Ambrogio, Francesco Pierattini sono partiti dal bistrot, si sono fatti onore e adesso lavorano in grandi ristoranti stellati in giro per la Francia. Spero di averli di nuovo al mio fianco un giorno.

 


Rapporto con la città e la cucina locale

Al Dorchester si fa cucina francese moderna, dunque creativa, senza scordarsi dell’anima multietnica di Londra, che si riflette nell’offerta dei ristoranti più disparati. Si può mangiare in giro per la città un autentico pasto libanese o vietnamita, non qualcosa di affine come capita in altre capitali mondiali. Dunque parlare di cucina locale a Londra significa doversi interfacciare necessariamente con tutte le culture e tradizioni del pianeta. La cucina britannica di per sé offre piatti della tradizione simili alla cucina regionale del nord della Francia, come è logico che sia.

Non si può di certo affermare che i locali di cucina tradizionale britannica rappresentino la maggioranza. La città di per sé è vivibile è piena di cose da fare e luoghi da visitare.

Dai parchi ai musei, ai locali di tendenza. Mi piace molto Londra, potrei lamentarmi da buon italiano soltanto dell’assenza del sole.

 

Libertà di decisione

Il nostro ristorante, come tutti gli altri del signor Ducasse, è ben collaudati e segue regole organizzative precise. La cucina e la realizzazione dei menu sono affidate a Jean-Philippe Blondet. che oltre ad essere lo Chef è un amico che conosco da quasi quindici anni. Può capitare che Jean-Philippe proponga gli ingredienti e noi lavoriamo sui piatti, a volte in maniera individuale, a volte in squadra con gli altri sous-chef. Ma può capitare anche che una tua idea o iniziativa sia promossa a pieno titolo.

 


Qualche aneddoto

A Parigi, dove facevo lo chef prima di trasferirmi a Londra, il giorno dell’apertura al pubblico del ristorante Alain Ducasse aveva prenotato un tavolo alle 20.30 per 3 persone. Era il 24 settembre, non lo scorderò mai. Quella sera a qualche isolato c’era stata la premiazione per la rivista Chef Magazine, alla quale erano invitati i più grandi nomi della gastronomia d’oltralpe. E lui si è presentato alle 21.00 con 42 ospiti del calibro di Christian Le Squer, Pascal Barbot, Michel Roth, Olivier Nasti, Emmanuel Renault, per citarne alcuni. È stata una delle serate più difficili della mia carriera. È una storia vera. E fu un successo. Per fortuna.

 

Vuole rientrare

Certo. Casa mia è in Italia. Un giorno vorrei tornare; non ho in testa una data precisa, ma un giorno vorrei poter tornare a casa. Strutture del calibro di quelle per le quali ho avuto e ho la fortuna di lavorare sono rare in Italia e giustamente sono “blindate”; chi ha avuto il merito di scalarle si tiene stretto il suo ruolo. Ma non si sa mai. Il sogno rimane in ogni caso quello di “andare in pensione” un giorno in un ristorante di mia proprietà, sperduto nelle campagne senesi.

Cecilia Spurio

Sous-Chef Pâtissière al ristorante Guy Savoy, Parigi

Percorso

Ho sostenuto un colloquio con Monsieur Savoy, il quale mi ha proposto un contratto come sous-chef patissière. Facendo un rewind, alle spalle ci sono stati un anno e mezzo da Pierre Gagnaire, Igles Corelli all’Atman ed Enrico Bartolini al Mudec, il mio battesimo in questo mondo straordinario che è la ristorazione gourmet. Nel 2018 sono partita e approdata a Parigi con il mio compagno, Eugenio Anfuso, chef de partie all’Ambroisie di Bernard Pacaud e capitano di questa folle avventura condivisa.

 


Differenze con l’Italia

Per quanto riguarda la mia personale esperienza, sento di aver trovato qui, parlando del nostro lavoro, maggior rispetto, maggiore comprensione da parte del cliente e una più marcata tutela da parte delle istituzioni. Abbiamo i nostri day off e le nostre pause, ci organizziamo al meglio, rendendo pienamente produttive le ore che abbiamo e che sono, a fine settimana, un gran bel numero. Geniali sono la capacità e lo spirito di adattamento che si notano quando si visita una cucina dopo un pranzo o una cena: spazi limitati, partite microscopiche e spesso prive di tecnologie moderne, come sonicatori, forni a pressioni o cotture sottovuoto. Questo, a mio avviso, è dovuto all’attaccamento verso le tecniche e le tradizioni tramandate negli anni, che ci fanno comprendere come un buon piatto non abbia forzatamente bisogno di stampi in silicone, arie scenografiche o sfarzosità inutili. Un’altra differenza è sicuramente data dal fatto che qui la pasticceria da ristorazione ha rilievo, lo chef pasticcere è una figura contrattualmente esistente e necessaria per la costruzione di un team: è come immaginare una squadra di calcio senza il portiere. In italia questo tassello manca o è lacunoso, spesso sono i cuochi a occuparsi dei dessert, dimenticando che se il cliente arriva al dolce, non è perché ha fame ma perché ha voglia di togliersi un piacere. E quel piacere deve esserci. Da Guy Savoy la cucina è sviluppata su due piani, solo la pasticceria occupa 110 metri quadrati suddivisi in 3 sale: una di dressaggio/ servizio, l’altra di cottura e l’ultima dove si producono brioche, gelati, cioccolato e carrello dei dolciumi.

 

Gestione della cucina

In pasticceria siamo più di dieci, i ragazzi lavorano parte della giornata alla preparazione della linea, alcuni di loro si staccano per il servizio e gli altri continuano la produzione per la sera. Facciamo una media di 60 coperti a pranzo, 80 a cena, numeri importanti per un tre stelle Michelin. Essendo una delle principali capitali della gastronomia mondiale, Parigi offre la possibilità di lavorare tutti i giorni a pieno ritmo, intensificando e accelerando la nostra crescita professionale.

 


Rapporto con la città e la cucina locale

Adoro, adoriamo Parigi, è una città che corre veloce ma che ama coccolare e coccolarsi. Ciò che mi ha colpito da subito è stata la varietà nella scelta dei prodotti, dei mercati locali, dei piccoli artigiani e la possibilità di riuscire a reperire qualsiasi tipo di ingrediente con una costanza qualitativa permanente. Parigi, essendo una metropoli, ha tante sfumature culturali e multietniche, che riuscirebbero a ispirare qualsiasi cuoco o pasticcere, anche solo camminando per le piccole vie della città.

 

Libertà di decisione

Ho moltissima libertà per quanto riguarda i piatti da proporre a Monsieur Savoy, il quale ovviamente valuta se inserirli o meno nella carta. Mi occupo spesso della fase creativa del dessert, realizzandolo poi in collaborazione con lo chef pasticcere. Lavorando per un pilastro della cucina francese, è per me motivo di orgoglio poter esaltare al massimo i prodotti stagionali nel rispetto della sua filosofia, atta a trasformare il pasto in un momento di gioia e convivialità, quello che lui stesso definisce “l’art de vivre à la française”.

 


Qualche aneddoto

Quando lavoravo nel tre stelle di Pierre Gagnaire, un giorno feci un dessert per il personale, gli piacque e decise su due piedi di metterlo in carta, con qualche modifica di presentazione, allo Sketch di Londra, chiamandolo “Cecilia dalle Marche”. Da un anno a questa parte, mi sono invece ritrovata a creare un piatto solo perché Monsieur Savoy mi aveva detto: “Cecilia, domani arrivano 36 chili di porcini in cucina, lavoraci anche tu”. Ho provato una mousse al mascarpone e ho aggiunto tè Lapsang Souchong, quindi note marcate di affumicato, porcini grigliati e spennellati con olio di nocciola, gelato alla nocciola e riduzione di acqua di funghi. Ho avuto la fortuna e l’onore di partecipare a premiazioni importanti come quella di miglior ristorante al mondo secondo La Liste per il quarto anno consecutivo e quest’anno mi sono aggiudicata il premio come miglior dessert per la Guide Lebey, creando a mano uno stampo in silicone alimentare a forma di radice di albero e cercando di esaltare le mie origini, utilizzando il tartufo proveniente da Alba e le nocciole del nostro Piemonte.

 

Vuole rientrare?

È una domanda che ultimamente ci poniamo spesso. Siamo partiti convinti del percorso che volevamo intraprendere, senza porci limiti temporali, ma con un progetto ben chiaro, che è quello di aprire un nostro ristorante. Indubbiamente Parigi è una piazza interessante, che offre innumerevoli possibilità e prospettive lavorative; dall’altra parte avremmo voglia di tornare nel nostro paese di origine, per restituire una minima parte di quello che abbiamo appreso negli anni, fondendolo con le nostre tradizioni e radici.

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