È l’anno in cui le donne stanno scalando le vette della gastronomia mondiale, riconosciute con ampio merito dalla guida Michelin e dai 50 Best. Ma non è abbastanza, per chi in cucina fa ricerca e si impegna al pari dei colleghi uomini.
La Notizia
Una rossa screziata di verde, ma anche di rosa. Le stelle per la sostenibilità non sono state l’unica novità delle ultime edizioni Michelin, che come accade da tempo si sono mostrate straordinariamente sensibili ai giovani, a costo di qualche ingiustificabile discriminazione verso i talenti tardivi, e alle donne, soprattutto all’estero.Se è vero che la cucina italiana è stata spesso considerata oltralpe una “cuisine de maman”, tanto sentimentale quanto poco professionale e poco tecnica, deliziosamente approssimativa e affettuosamente bas de gamme, le nostre cuoche hanno detenuto a lungo il record mondiale delle stelle. È passato qualche lustro, da quando sul tetto della gastronomia svettavano tre regine: Annie Féolde, Nadia Santini e Luisa Valazza, in compagnia del solo Massimiliano Alajmo. Era il 2004, poi si sarebbero aggiunti Heinz Beck nel 2005, Chicco Cerea nel 2010, Massimo Bottura con Enrico Crippa nel 2012 eccetera... Qualcosa di mai visto dai tempi delle Mères de Lyon, quando le donne dettavano legge nella Francia degli anni ’30.
Attualmente i ristoranti tristellati a guida femminile sono 7, appena il 5% del totale. La donna più premiata è Anne-Sophie Pic, che detiene 8 stelle Michelin; insidiata dalla connazionale Hélène Darroze. A fare loro compagnia sono la Féolde e la Santini, con le loro valide spalle maschili, Dominique Crenn, Elena Arzak e Clare Smyth. Dove nel trofeo per nazioni si distinguono, insieme all’Italia, la Francia e la Gran Bretagna, con la Darroze di nazionalità francese ma incielata a Londra.
Ed è stata proprio la doppia promozione della Darroze per The Connaught e di Clare Smyth nell’ultima edizione inglese a portare le cuoche alla ribalta. Tanto che ci si chiede se la cucina si sia femminilizzata o se piuttosto le cuoche non si siano evolute, tecnicizzandosi fino a eguagliare i colleghi maschi. Più probabilmente, a parere di chi scrive, entrambe affermazioni veritiere. Se le tecnologie, è innegabile, hanno sgravato le cucine di una buona mole di fatica fisica, le stesse atmosfere si sono fatte più light e decontratte. Ci ha messo del suo anche la congiuntura storica, che ha propiziato il revival della tradizione, ciambella di salvataggio nei momenti di emergenza, da sempre nelle mani di vestali. Ma la presenza femminile è cresciuta anche nel campo della ricerca e perfino dell’avanguardia, dove era pressoché assente.
Fermi per lockdown, potrebbero prenderne atto i 50 Best, dove la presenza femminile è piuttosto un’assenza nelle prime file: le donne sono 4 su 50, l’8%, ma la prima è Daniela Soto-Innes di Cosme, New York, in 23ma posizione; seguono Dominique Crenn al 35mo posto, Ana Roš al 38mo e la colombiana Leonor Espinosa al 49mo. Questo nonostante metà panel sia rosa. Esiste certo, come in Michelin, il riconoscimento alla migliore chef donna, ma è una quota rosa che rischia di mortificare la categoria, statuendone l’inferiorità consustanziale.<br />
La domanda, tuttavia, resta invariata: che il cucinare si declini in un genere, al maschile o al femminile, è questione da sempre dibattuta dalle cuoche stesse. Se Hélène Darroze, forte di decenni di riflessione femminista, afferma pacificamente che le donne fanno qualsiasi cosa a modo loro, anche cucinare, Antonia Klugmann preferisce citare Virginia Woolf di Una stanza tutta per sé, sostenendo l’identità libera della cucina. "Non credo si possa identificare una cucina come il prodotto particolare di un genere piuttosto che dell’altro. A occhi chiusi io stessa non sarei in grado di stabilire se un piatto sia prodotto dalla mano femminile o maschile”, dice. “Mi pare evidente e mi sembra che ci sia sempre più consapevolezza che la presenza o meno all’interno di un settore di lavoro di un genere sia una problematica trasversale. I problemi sociali ed economici che condizionano la presenza delle donne nel mondo del lavoro sono gli stessi in ogni ambito e solo la risoluzione di questi potrà portare a una cancellazione del gender gap. Il talento è distribuito equamente tra donne e uomini. In ogni settore in cui questo non sia palese, è chiaro che vi siano dei problemi da risolvere. La mia vita ha trovato nel lavoro un luogo di espressione e di libertà”.
Aurora Mazzucchelli, altra giovane chef di grande talento, continua a ritenere che la cucina, pur non avendo genere, rispecchi chi la fa. “Nel mio mondo creativo mi sono resa conto di produrre piatti avvolgenti, dove l’ingrediente era contenuto all’interno di un’altra consistenza per una sorta di gestazione. Forse una manifestazione dell’attitudine femminile a proteggere e in qualche modo preservare prima di donare”.
Giovanni Lagnese infine, fondatore di Gourmet Concerto, la pensa a modo suo anche su questo: “Il superamento di ogni forma di binarismo di genere è necessario. Lo è sia per un'adeguata fioritura dell'essere umano sia per lo sviluppo delle forze produttive nel mondo contemporaneo. Nei ristoranti, più che la cucina, è innanzitutto la sala a necessitare di riforme radicali in questa direzione. Ogni forma di galanteria è legata a una concezione binaria, non fluida o comunque puramente esteriore delle identità di genere: si tratta di un modello superato che deve essere espulso da qualsiasi contesto sociale nel mondo occidentale contemporaneo. Dunque da questo otto marzo in poi, per favore, smettiamola di servire prima le donne!”.