Dove prima c’era una storica locanda di famiglia, oggi c’è uno dei ristoranti più incensati dalla critica italiana (e non solo). Con la compagna Sara Silvani, Gianluca Gorini ha cambiato il modo di cucinare in Romagna, affermandosi come uno dei cuochi più capaci della sua generazione.
Da Gorini
Il ristorante
“Vale il viaggio” è risaputo cosa significhi, in special modo se riferito a un ristorante, come professa la Guida più influente del pianeta. Ma se si parla di Da Gorini, oltre al “vale” si potrebbe aggiungere anche “conta il viaggio”, perché se si arriva dalla storica strada Umbro Casentinese Romagnola che collega la Toscana all’Emilia, si vive un’amplificazione emozionale dell’esperienza.
Passando attraverso le estensioni di abeti e faggi del Parco delle Foreste Casentinesi, ammirando le “Scalacce” con l’alternanza di colori giallo-grigio delle pareti di arenaria, ci si ricolma già la vista e l’anima di quel territorio che poi proseguirà nei piatti di uno dei cuochi più capaci della sua generazione. Se si ha la fortuna di partire dalla Toscana, il viaggio fino a San Piero in Bagno, dove, dal 2017, Gianluca Gorini e la compagna Sara Silvani hanno aperto il loro ristorante, costituisce una oggettiva intensificazione dell’appagamento che procura la cucina universalmente leggibile dello chef pesarese.
Allievo di Paolo Teverini -ora si trovano a una manciata di chilometri di distanza con i rispettivi ristoranti- dopo una breve tappa a Londra da Alex Bentley, si ferma quattro anni a Siena a “Il Canto” di Paolo Lopriore. Di cui si afferrano tuttora chiare le influenze in alcune intuizioni che viaggiano su note amarognole, disciplinate comunque con una cifra poetica identitaria. È il 2012 quando si conferma Miglior Chef Emergente del Centro Italia al celeberrimo concorso ideato da Luigi Cremona e da lì parte la sua prima esperienza da chef, presso “Le Giare” di Montiano.
Il richiamo della Romagna è inesorabile e in quei quattro anni comincia a delinearsi il suo stile, la sua estetica. Fra i gourmand si inizia a diffondere l’aggettivo “goriniano”, i lineamenti della sua personalità culinaria diventano sempre più definiti. Per trovare il loro compimento nel progetto attuale, quello che lo vede dal 2017 nel ruolo di patron di Da Gorini (nato negli ambienti dello storico ristorante “Gambero Rosso”, una locanda gestita dalla famiglia Saragoni per 63 anni), affacciato alla piazza principale di San Piero in Bagno, stella Michelin dal 2019.
L’audacia e la ricerca dell'inaspettato nei piatti, innegabilmente motivo di divertimento e stupore per chi si siede a tavola, per Gorini sono sempre funzionali alla bontà, nel senso più esteso del termine, mai fini a sé stessi. E sebbene sia nelle intenzioni di quasi tutti i cuochi ricercare la crasi perfetta fra inusuale e buono, è un’impresa che riesce a pochi. Come a un paio di colleghi chef, Pier Giorgio Parini e Antonia Klugmann, con i quali Gianluca organizza una volta l’anno “Guardiamo Oltre”, una cena con un menu concepito insieme, come se fosse un master di improvvisazione teatrale. Una commistione di talenti che manda gli ospiti in visibilio, i piatti sono pensati esclusivamente per l’occasione, proposti “al buio” e solo alla fine viene svelato il loro ideatore.
Quella di Gorini è una cucina di profondo studio e ricerca, dove una curiosità vibrante sollazza un talento granitico, per risultati che ottengono consensi generalizzati. Riduttivo nel suo caso raccontare il concetto acclarato delle materie selezionate ed espressione del territorio. Poetiche anche le scelte lessicali della carta e delle presentazioni dei piatti, dove ricorrono termini carezzevoli come minestra, casseruola e contorno, che molti cuochi parvenu hanno rottamato.
@Da Gorini
I piatti
Il benvenuto si snoda fra una sfilza di sapori, note e nuances appannaggio del mondo vegetale. Strepitose le foglie di spinacino fresco ripassate in una polvere di semi di zucca tostati, mostarda al madarino, a cui segue mela verde, gelée all’orzata, zucchero alla paprika e una tartelletta ripiena al parmigiano e macis e rapa rossa marinata nel burro di alici, polvere di limone.
Il pane è a lievitazione naturale, con farine di tipo 1 e 2, arricchito da una piccola quantità di semi, arriva insieme ai crackers al sale di Cervia e ai grissini, finalmente corposi e accorciati. Rotondo e opulento l’uovo montato a caldo, a una temperatura di 80°, con burro e parmigiano, tartufo bianco, servito nel suo guscio. Accompagnato da un crostone di pane piastrato con pancetta croccante e parmigiano.
La lepre viene cotta in casseruola con vino rosso e viene avvolta, in tutta la sua succulenza, da crema di patate all’olio, a cui si contrappongono le sfumature amare dell’estratto di ginepro e le note acidule delle more sott’aceto.
Viene prima bollita e poi ripassata alla brace la lingua di manzo che dal filetto di peperone cotto alla cenere attinge una dolcezza decisa e pungente, addomesticata da una polvere di olive taggiasche e da uno spumino di burro d’aringa.
Vigorosi i tortelli ripieni di cacciagione brasata al vino rosso, che attutiscono la loro rotondità con la mantecatura al burro bianco a base acida, a cui si aggiunge la mela cotogna disidratata al forno, e mini-cubetti di una gelatina all’estratto di salvia.
Come Gorini pochi riescono a creare una tortuosità gustativa millimetrica che all’assaggio si trasforma in piacere tout court. Uno dei tanti casi è l’anguilla alla brace al miso d’orzo, accompagnata da funghi porcini, una crema di topinambur aromatizzata con un whisky torbato, scaglie di tartufo nero a intensificare la terrosità e mentuccia selvatica.
Luculliano l’agnello servito in tre atti, cotto sui carboni con battuta di pomodori secchi e polvere di olive taggiasche. La pancia viene prima bollita e poi brasata, aromatizzata con paprika, cumino e menta, servita come una dolce al cucchiaio, tale è la golosità. Fegato e frattaglie sono raccolte in uno spiedino, come in una sorta di rilettura degli gnummareddi.
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I contorni all’italiana svolgono mirabilmente il loro ruolo di allietatori intermittenti del palato fra un boccone e l’altro della pietanza; c’è la misticanza condita con polvere di semi di zucca tostati e limone alla brace; un flan di erbette, cime di rapa e pecorino; il cavolo marinato in aceto di riso, soia e semi di sesamo che resetta diligentemente.
Celebre per i pre-dessert spiazzanti, lo chef non si smentisce nemmeno questa volta e ci presenta un pre-dolcet “tonico”, ovvero uno spaghetto Mancini mantecato con burro alla genziana, caciotta di capra e bergamotto candito da gustare alla fine per riequilibrare le papille.
Delicato il semifreddo al raviggiolo, che si enfatizza con le amarene sciroppate, croccante alle noci, infuso al vermut rosso.
Fastosa raffinatezza per la zuppa inglese “daGorini”, dove una crema profumata al limone e cannella e un gelato e gelatina all’alchermes, si combinano con la classica ciambella romagnola inzuppata nell’alchermes. Completano granella al cioccolato sabbiata, tartufino al cioccolato 70%. L’assaggio parte prima con i singoli elementi per poi mescolare il tutto. È un inno al bosco il millefoglie con crema al miele di abete, polline, gelatina di rosmarino, gelato di caldarroste, marron glacés e succo d’uva.
Mentre torniamo alla complessità di immediata lettura nella zucca candita, glassata con salsa all’arancia, ricoperta di fava di cacao, chantilly al caffè di cicoria, girella speziata.
Anche nei petit four, la ricercatezza non perde mai tono; hanno chiuso, in ordine di assaggio, gelatina al limone; tartelletta ai frutti rossi; tartufino al cioccolato bianco, camomilla e anice; torroncino nocciola, caffè e cacao; mela dell’abbondanza marinata nel rum, uvetta, maggiorana fresca; cialdina alla frutta secca.
Foto di Lorenzo Noccioli
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